Mi fermo qui … e vado oltre

“A te si giunge solo attraverso di te. Ti aspetto” (Pedro Solinas in “La Voce a te dovuta”)

di Beppe Guzzeloni

Nelle ultime (penultime?) riflessioni sulla montagnaterapia, da me intesa come pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui la pedagogia della montagna come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

L’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è stato un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza, ma presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. La montagnaterapia come sguardo pedagogico e come risorsa spirituale verso un cammino verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta terapeutica per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esite. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo rinnovato e sostenibile. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una salita ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La montagnaterapia, come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica agendo nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà. La montagnaterapia come “visibilità” intesa, non come pronunciamento dell’Io, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento. La montagnaterpia come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la montagnaterapia oggi è riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la montagnaterapia diventa azzardo pedagogico, sguardo ulteriore dentro se stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Io trovo il senso di camminarla, la montagna, arrampicarla, guardarla comunque. Non c’è altro che mi attira, a volte anche senza una meta, a volte senza raggiungere una meta prescelta, se non la motivazione di andare in montagna e basta. Ma andarci con il gusto di vivere l’impotenza davanti a lei e tale sentimento equivale a una bellezza smisurata. Forse anche questo è montagnaterapia. E dico questo perché la montagna di abitanti, alpinisti o viaggiatori (non turisti) o poeti ha un senso diverso con l’uomo. Bisognerebbe spiarla senza di noi, operazione impossibile se non attraverso un corridoio del tempo che ci porti al passato. L’uomo accumula ricchezza effimera, ne ha bisogno. Non può bastarsi. Ecco, la possibilità che tale ricchezza non resti effimera ma possa essere eredità per il futuro, è l’utopia cui deve tendere la poesia del verso pedagogico che si chiama montagnaterapia.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va cissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’andare in montagna per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio cerco la solitudine, che è dentro di me, e che mi aiuta alla comunicazione con l’altro. Forse, in montagna, vado oltre me stesso per andare verso l’altro, in cerca non di avventura ma piuttosto ricerca di armonia tra uomo e natura. E questo è montagnaterapia intesa come luogo di incontro tra montagna e persona umana.

E così concludo la mia riflessione sulla pedagogia della montagna. Pensieri e parole buttate lì, su uno schermo del computer. Con uno sforzo che si augura di essere poetico ed utopico e che mi ha fatto sognare e immaginare una trasformazione. Ne avevo bisogno. Pensieri che restano in me come opportunità di provare ad inoltrarmi in nuovi sentieri di senso che attivino scelte e comportamenti che trasgrediscano l’ovvio e del “si fa sempre così”. Utopia? Certo.

Mi fermo qui con i versi di Solinas, con una piccola modifica: A te si giunge solo attraverso di te: aspettami, montagna! E da tempo che sono partito…

E vado oltre restando fedele al mio fermarmi.

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La pedagogia della montagna tra bellezza e fragilità

di Beppe Guzzeloni

“Gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare” così scrive Hanna Arendt in “Vita Activa”. Questa frase mi ha accompagnato in questi giorni, prossimi al Natale, a riflettere su quell’esperienza particolare che sta seducendo il CAI con avvenimenti significativi e importanti, chiamata “montagnaterapia” e su alcune idee, buttate lì come mattoni, che ho iniziato ad avere in questi anni su ciò che chiamo “pedagogia della montagna”, come tentativi di immettermi faticosamente e, forse illusoriamente, in quel pensiero vorticoso di costruire un diverso paradigma, una nuova traccia che integri e vada oltre la definizione e l’espressione pratica di “montagnaterapia”. Un pensiero in equilibrio precario su creste affilate avvolte dalla nebbia del dubbio, una riflessione critica che ha scelto di affrontare passaggi impegnativi per cercare di mettere le fondamenta ad un’esperienza ancora all’inizio del proprio, incerto, futuro. Fortunatamente non esiste una risposta che possa soddisfare la domanda di senso che provo a pormi. Ciò non toglie che, per essere realmente tale, ogni inizio è un taglio che si apre, che scava un vuoto alle nostre spalle senza offrirci una chiara visione di ciò che ci aspetta. Questi miei pensieri sono negli anni della loro adolescenza, dove prima ancora che del rinnovamento, essi sono una metafora dell’incipit di ciò che mi frulla per la testa. Un inizio che non è mai quello che ci aspetteremmo, solare e armonico, ma è un’alba che appena s’intravvede che guardando dietro di sé non trova appigli cui attaccarsi e che avverte con una certa inquietudine i segnali di quell’incognita di vita che sente crescere dentro di sé. L’esperienza di questi anni ha visto la montagnaterapia in cerca di riconoscimento e visibilità da parte di operatori, pazienti e volontari, ma soprattutto da parte delle istituzioni sociali e sanitarie. E io credo che essa debba spingersi oltre, di forzare i confini della propria visibilità sociale per mantenersi in contatto con quel punto sorgivo del proprio essere e della propria scelta di esserci.

Ma qual è il punto sorgivo, la fonte da cui scaturisce un pensiero che man mano si è fatto prassi? Io non lo vedo, anche se invece così sembra ed appare, solo all’interno del discorso clinico e terapeutico, ma nasce, in me nasce, dal bisogno di poesia. Poesia che ci insegna a vedere il mondo con occhi diversi, che ci fa provare sensazioni, che unisce corpo e mente e che permette a ciascuno di noi di esprimersi nel proprio linguaggio. È senza dubbio difficile farsi un’idea di questa sorta di non-luogo per avvicinarci al quale noi, esseri razionali e pratici, dobbiamo ricorrere per dimostrarne l’esistenza. E qui intendo la poesia come un pensare ad un che di utopico, di un qualcosa che non si trova, ma c’è. Che si dilegua ma che pur esiste. Non è frutto della nostra immaginazione. Utopia come ritrovamento, come percorso di speranza e di scoperta individuale e sociale. E ciò può avvenire non attraverso i percorsi conosciuti, consolidati, tracciati che si rilevano sulla cartografia ufficiale, ma solo attraverso la marginalità, i sentieri nascosti, quasi irraggiungibili. La poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui l’utopia come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Stiamo vivendo un momento di svolta, nell’approccio alla montagna. Se negli ultimi due secoli, perlomeno, il modello di essere umano era costituito dal cittadino costruito dalla civiltà industrializzata, che andava in montagna o per contemplare la natura selvaggia, eventualmente studiandola o per conquistarla (assediarla?) fisicamente, per sfruttarne le risorse naturali depredandole, oggi il rapporto con la montagna diventa sempre più necessario per rigenerarsi (fuggire?) dall’epoca tecnologica e, soprattutto, per attingere uno stile di vita alternativo. Lo stile, la via che mostra la montagna è il limite e l’insieme di orizzontalità e verticalità come dimensioni essenziali, entrambe, per una maggior autenticità umana che “sa prendersi cura e avere cura”. Ecco, per me la “pedagogia della montagna” è il tentativo di iscrivere il proprio nome all’interno di questo discorso, a questo nuovo linguaggio che vuole esprimere e significare quell’etica del prendersi cura, come sollecita l’Enciclica “Laudato Si’” intesa non solo come valore di riferimento, ma come impegno personale e collettivo a rendere sperimentabile la riprogettazione e la qualità della vita. E la montagna insegna i limiti costitutivi dell’uomo, delle proprie debolezze, fragilità e marginalità, e non è solo via di fuga dalle civiltà omologanti, ma anche sperimentazione in cammino, esperienziale abitare una dimensione che dilata le potenzialità umane. La pedagogia della montagna è pensiero esperienziale suscitato dalla montagna stessa, la quale apre il cammino, che conduce a sé, a chi ne sappia ascoltare il silenzio, attendere il respiro, inoltrarsi, quasi intimoriti, nella realtà verticale. La montagna, come pedagogia, è soggetto, prima che oggetto di pensiero; soggetto significativo per la vita in genere che incarna in modo esemplare la dimensione autentica, profonda della vita a condizione che chi la avvicini sia consapevole della propria finitezza e ulteriorità della montagna; sia che la si abiti come montanari, sia che la si frequenti come alpinisti, in montagna si vive solo grazie alla proprie limitate forze, spesso marginali, eppure sufficienti al sopravvivere perché capaci e disponibili  di fare libera esperienza, per gradi, del personale limite, sempre lambito e mai superato.

La pedagogia della montagna è la possibilità di vivere la montagna per quella che realmente essa è; non idealizzata come negli spot pubblicitari di ambientazione alpina e sportiva in cui essa viene raffigurata secondo una perfezione ipostatica, assoluta, capace di rendere visivamente quel concetto di perfezione che in natura non esiste. È questa la montagna che il pubblico vuole vedersi proporre: idilliaca, mai sudata, mai piovosa o fradicia, frequentata da persone mai scomposte, in un tempo fittizio, impermeabili alle forze della natura: una montagna che crea benessere psicofisico come atto miracoloso e consumistico, che va oltre le nostre vulnerabilità. La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Io credo che le parole “che si dicono”, il linguaggio che viene usato, trasmettono risonanze emozionali che mentre vengono pronunciate si riflettono in chi ascolta, ancor più se la nostra relazione con l’altro è mossa da intenzionalità educativa o veicolata da un legame o da una relazione d’aiuto. Le parole possono infatti mitigare la sofferenza in chi fatica a vivere e a resistere alle proprie fragilità, parola che ricorre in relazione a molteplici condizioni e difficoltà. Fragilità vuol dire avere a che fare con la mancanza che alberga nell’uomo e che lo spinge, frequentemente, a difendersi attraverso il distacco, l’indifferenza, l’isolamento, vivendo le relazioni a “distanza di sicurezza” da ogni coinvolgimento, lontano da ogni empatia, dalla possibilità ad intravvedere esperienze “di futuro”. Fragilità è parola rinviante a dimensioni dell’umano che agiscono su vari piani. Pensiamo alla disabilità, alla malattia, all’esclusione sociale, alla devianza, ma anche all’aspirazione ad essere e “sentirsi inclusi e appartenenti” per coloro i quali, privi di una rete e di legami sociali, non possono vedersi riconosciuti e far valere la possibilità di attuare a pieno le proprie capacità o di avere l’opportunità di poter esprimere le personali risorse. In tutti i casi, la fragilità attiva un’istanza per il riconoscimento di sé e per la ricerca di uno spazio inclusivo, di condivisione e costruzione di relazioni tanto sul piano della vita personale, quanto su quello comunitario e in relazione ai contesti nei quali le fragilità diviene sfida e voce critica per la società.

Al di là delle modalità di aiuto e intervento, emerge l’urgenza di prestare attenzione a ciò che non è manifesto, alle dimensioni dell’implicito, del ciò che “ci sta dietro” che attraversano i diversi spazi educativi, nelle relazioni interpersonali. Ma non solo, anche in relazione all’ambiente alpino vissuto nelle sue diverse dimensioni, qualcosa di “invisibile” accade di coinvolgente: l’esperienza della bellezza. La montagna come estetica del paesaggio, naturale e antropologico, diviene il “setting”, quel possibile luogo di cura e del prendersi cura che aiuta a superare, nella sua accettazione, le proprie e altrui fragilità. Guardare alla montagna, vivere la montagna, sotto il segno della bellezza significa affermare, come ricorda E.M. Cioran, che è esattamente come dovrebbe essere in quanto nella bellezza tutto trova una ragione d’essere, il suo equilibrio, il suo senso profondo, il suo slancio poetico. La pedagogia della montagna come esperienza della bellezza, vissuta, conservata, arricchita da comportamenti funzionali, idonei alla sua salvaguardia. La bellezza della montagna (e della natura) dà respiro ad una visione del mondo in cui tutto si scioglie in armonie e splendori, dove le fragilità e le vulnerabilità umane non fanno che accrescerne il fascino. La bellezza della montagna non salverà né guarirà certo il mondo, ma avvicinerà a quel benessere personale e sociale coloro i quali si incammineranno nell’impegno costante nel salvaguardare e tutelare la sua anima che, come ogni ambiente naturale, può trasformarsi positivamente in idea di azione, in teoria di paesaggio, in luogo degli uomini e delle donne purché essi siano messi nelle condizioni di identificare e perseguire liberamente i propri desideri.

Se, come ricorda Papa Francesco nella sua “Laudato Si’”, teniamo conto che le persone sono creature di questo mondo, che hanno diritto a vivere felici e hanno una particolare dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale dell’attuale modello di sviluppo sulla loro vita. Ecco che allora, la pedagogia della montagna può divenire un’esortazione all’impegno, alla costruzione di reti solidali, di modi di intendere e frequentare la montagna che si ispirino a quella poesia dell’utopico inteso come edificazione del possibile, del “qui e ora” che si proietta in un “non ancora”. Ecco, quindi, che la pedagogia della montagna diviene spazio terapeutico, setting particolare e specifico attraverso cui avviare quel processo del prendersi cura di sé e dell’altro che si manifesta nell’aver cura della montagna come sintesi che sollecita a porre lo sguardo verso le meraviglie del mondo alpino come spinta coraggiosa del saper vedere le fragilità come capacità “di sentirsi dentro” e di riconoscere la propria e altrui unicità e meraviglia in relazione ad una vita che, anche  se sfilacciata, va percepita, riconosciuta, vissuta e raccontata abbracciandone l’interna bellezza che alimenta qualsiasi relazione d’aiuto. La pedagogia della montagna come pedagogia della bellezza e della fragilità in quanto frutto di una sottile, ma forte, sensibilità per l’umano e affascinazione per l’ambiente e del paesaggio alpino che concorrono ad alimentare l’attenzione alla persona, sollecitandola a prendersi cura e a imparare a riconoscere la stessa bellezza come cura. Pedagogia della montagna come significato di quella affinità tra fragilità e bellezza come possibilità e opportunità poetica di attingere al profondo di ognuno di noi per dare vita a qualcosa di bello e significativo.

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Per una pedagogia della montagna

Proseguono i contributi per una Pedagogia della Montagna. Un altro interessante articolo di Beppe Guzzeloni (Istruttore regionale di alpinismo).

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere” così scrive nei suoi diari il poeta inglese William Blake (1757-1827)

Non so perché, leggendo questa frase, mi è subito venuto in mente la favola “Il Piccolo Principe” dello scrittore francese Saint-Exupery. Un testo poetico che, per un gran numero di persone, è divenuto il racconto chiave della loro vita.

Anche per me. Questo libro, nella mia adolescenza, è stato il rifugio nelle ore di solitudine, conforto nei momenti di delusione. Un compagno indispensabile per riprendere fiducia e rinnovare il cammino della speranza.

Ma soprattutto “Il Piccolo Principe” è stato un forte messaggio educativo in grado di ricostituire la fiducia nella fedeltà incondizionata dell’amore; promette e impersona un mondo dell’impegno e della responsabilità reciproca ed evidenzia un legame d’amore, un alto canto di amicizia, semplicità e bellezza.

Perché stupirsi se “Il Piccolo Principe” ha finito per diventare la figura di un’umanità ideale?

Il suo sguardo retrospettivo nel regno dell’innocenza infantile e, soprattutto, il suo sguardo rivolto alle stelle, che nelle notti insonni, ci parlano di un invisibile pianeta di una straordinaria rosa e del suo mistero, ci ridona la profondità del sognare e l’ampiezza del cuore che credevamo ormai perduti.

E possibile sperare. A patto che vi sia attenzione per la rosa, che si abbia cura di lei, che la si protegga, che si faccia il possibile per lei. Con scelte consapevoli, con costanza e con la passione per il futuro da costruire.

Mi viene ora spontaneo e naturale portare il discorso sulla montagna, sull’ambiente alpino e della sua frequentazione sostenibile; del suo rispetto e della sua tutela. E qui ancora riporto una frase di Saint Exupery: ” la montagna è uno specchio, una provocazione del sublime; essa esalta ciò che ciascuno porta in sé di più ardente…”.  

Come scrive F.Tomatis nel suo bellissimo libro “ La via della montagna”, la rivoluzione montana può accadere, spontaneamente, nella misura in cui la visione diventa verticale. Orizzonte e monte, verticalità e cammino, ascesi e ritorno, ascensione e ridiscesa nel mondo sono naturali complementarietà della rivoluzione montana. Una rivoluzione che esige un cammino, una salita trasformativi tra natura e cultura.

L’ambiente alpino è un bene comune. E lo è nel momento in cui ne viene riconosciuto il valore da parte di chi si interroga e decide su come partecipare alla sua conservazione e alla sua trasformazione. “Spazio di vita” così intende la Convenzione Europea.

Un ambiente non solo da guardare, attraversare, godere mediante attività escursionistiche o alpinistiche, intese anche come opportunità per raggiungere condizioni di benessere fisico e psichico. Sicuramente non un luogo da consumare e sfruttare.

Quello che è importante non è tanto la conquista della vetta, seppur ha il suo valore, ma è il tu per tu con la roccia, con la neve, con il ghiaccio che è insostituibile: toccare, vedere, gli odori, i colori. E’ un’esperienza indimenticabile, è come una danza, la danza dell’appartenenza dell’ambiente che vivo. La vita di montagna, con il suo isolamento, con la presenza continua di pericoli, incoraggia lo sviluppo di due tendenze opposte della personalità umana: da un lato rafforza l’individualismo, dall’altra il bisogno di collaborare con il gruppo e di essere comunità.

L’ambiente alpino non è quindi un passivo diritto di fruizione, ma richiede l’esercizio della responsabilità individuale e collettiva finalizzato alla sua salvaguardia.

 La cura del paesaggio e il diritto delle persone a beneficiarne, sono strettamente interdipendenti e richiedono azioni di solidarietà civile e di partecipazione responsabile.

Si tratta, quindi, di avere la possibilità di prendersi cura di sé con la consapevolezza che la tutela della montagna (ambiente, cultura, paesaggio, territori, tradizioni) sono la conditio sine qua non per salvaguardare anche il mio e altrui benessere.

L’ecologia umana è inseparabile dalla nozione di bene comune; un principio che svolge un ruolo importante nell’etica sociale. Il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale e la cura per la natura attraverso un cambiamento degli stili di vita che implicano la capacità di vivere insieme e in comunione con il creato. Il bene comune presuppone una cultura della cura, come ricorda Papa Francesco nell’enciclica “Laudato Si”.

Per pedagogia della montagna, quindi, intendo la costruzione intenzionale di un dispositivo emotivo, formativo ed educativo che ha come obiettivo la cura di sé e che investe la vita interiore del soggetto promuovendone la crescita personale. Pedagogia della montagna come conversione alla cultura della cura.

Esso è il risultato di un processo che si svolge, cresce e matura nel contesto alpino come luogo in cui natura e cultura, persona e paesaggio, territori e tradizioni convivono nella ricerca del proprio equilibrio.

E’ nel rapporto, nella relazione, nell’apertura consapevole e responsabile tra soggetto e ambiente alpino che possono crearsi le opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali e di salvaguardia della montagna.

Il camminare, l’alpinismo, l’arrampicare devono diventare azioni consapevoli di conoscenza di sé e dell’ambiente in cui si svolgono tali attività. La conoscenza di sé (limiti, scoperta di emozioni, espressione del corpo, scoperta di possibilità proprie…), l’apprendimento di una tecnica, l’esperienza della frequentazione della montagna diventano luoghi di cura nella misura in cui “ mi occupo” anche di tutelare e salvaguardare lo spazio che mi offre l’opportunità di cambiamento sia dal punto di vista della salute che di crescita umana e sociale.

La valenza pedagogica nel promuovere una relazione responsabile tra soggetto e ambiente alpino, offre la possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale e ad una maggior consapevolezza che “la patologia” non annulla il poter esprimere la propria “cittadinanza”.

Come suggerisce Salvatore Settis in un suo scritto, occorre pensare il paesaggio e l’ambiente alpino come “teatro della democrazia”, luogo di diritti e di doveri.

La pedagogia della montagna è la manifestazione di come si può intendere, ritornando al Piccolo Principe, “l’attenzione alla rosa” e di come apprendere il mistero dell’amicizia e della cura dell’Altro ( persona, ambiente, relazione…).

 Il prendersi cura consiste in un paziente, lento, progressivo processo di ‘conoscenza’. Conoscere per fare e per essere; conoscere per andare e andare sicuri; un conoscere per capire, per amare e tutelare il luogo che mi accoglie. La montagna include chi la rispetta, chi la difende e protegge. La montagna, nella sua severità e asprezza, è accogliente.

 Solo così cresce il desiderio di conoscere e sentire sempre di più, di proseguire oltre e di capire più profondamente il mistero dell’Altro (montagna).

La pedagogia della montagna è il passaggio “obbligato” che deve essere affrontato per fare in modo che le scelte e le azioni finalizzate alla cura di sé attraverso la frequentazione della montagna si intreccino, dialoghino, abbraccino la montagna stessa attraverso la consapevolezza, i comportamenti, le prese di posizione, anche pubbliche, per il suo rispetto, la sua tutela e salvaguardia.

“Le montagne sono una sorta di miracolo: suscitano i sentimenti più disparati, riempiono di idee, spingono ad imprese, incuriosiscono, incutono paure, dissetano necessità.” Scrive il giornalista Enrico Martinet.

La pedagogia della montagna è una proposta, una sollecitazione: un invito a viverla. Ma non come senso di sfida agli elementi, di una volontà di dominio, di potenza o di bisogno di consumo; ma solo di corrispondenza, di confronto, di dialogo, di rispetto.

La pedagogia della montagna è un approccio delicato e dedicato alla conoscenza dell’ambiente alpino. Imparare un territorio è viverlo e la sua memoria è il frutto dell’esperienza.

Pedagogia della montagna non è solo la sfida che consiste nell’affrontare il mondo delle terre alte, ma sta nel riconoscerlo. Pareti, cime, ghiacciai, nevai, fiori, piante, pascoli, alpeggi, sentieri e accenni di sentieri. E’ l’esperienza da vivere per “sentirsi parte” di ciò che osservo, tocco, su cui cammino, arrampico. E l’esperienza di ritrovare i propri sensi: il vento freddo di masse glaciali, l’irradiazione dei massi, l’odore forte di erbe, l’udire il silenzio che pervade i boschi, porre attenzione a dove metto i piedi, a prestare interesse per quell’alpeggio, quella baita, quel muretto a secco.

La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Ora, questa esperienza dovrebbe essere la manifestazione di un’ulteriore presa di coscienza, di una diversa visione, di nuove scelte e coerenze: bisogna allargare lo sguardo e creare un nuovo linguaggio.

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere”. Credo che sia il momento di dover andare in direzione contraria all’appiattimento sull’esistente, sul “buon senso e dell’ovvietà” sfidando la gravità del qualunquismo con lo sguardo rivolto ad un futuro sostenibile per le Terre alte e avendo un sogno, una domanda. La pedagogia della montagna è lo sforzo, il perenne tentativo di creare un ponte tra sé e la società, per una pacifica esistenza delle persone, in un armonioso rapporto con l’ambiente e la natura alpina, innanzitutto coi propri simili, con ogni creatura, attraverso un costante equilibrio fra visibile ed invisibile, esperienza concreta e mistero.

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La montagna come risorsa pedagogica

Riportiamo integralmente l’intervista a Beppe apparsa sul periodico Salire del CAI Regione Lombardia

MONTAGNATERAPIA: LA MONTAGNA come risorsa pedagogica

L’ESPERIENZA DI “PASSAGGIO CHIAVE”

Intervista a Beppe Guzzeloni Istruttore di alpinismo di Alpiteam, Scuola di Alpinismo Lombarda

di Isabella Minelli – Sez. di Milano

“Passaggio Chiave” è nata nel 2013 come attività di montagnaterapia a supporto delle dipendenze.

Specificatamente è composta da una rete che accoglie in sé l’esperienza tecnico-didattica di Alpiteam e l’attività terapeutica e pedagogica di comunità e servizi come l’Arca di Como, Dianova

sedi di Garbagnate e Cozzo Lomellina, Il Molino della Segrona, Il Progetto di Castellanza, la Solaris di Triuggio, il Sert di Monza (Ats e Asst) e di Lecco, i Noa di Vimercate e di Baranzate. Nel loro

programma riabilitativo e di cura hanno inserito l’andare in montagna come “strumento educativo”.

Beppe Guzzeloni è stato uno dei protagonisti di questo progetto sin dagli esordi, ancor di più ha svolto attività di” montagnaterapia” dal 1985, ancor prima che fosse coniato questo termine (nasce nel 1999). Di seguito viene riportata l’intervista in merito all’esperienza di “Passaggio Chiave” con riferimenti anche a tutta l’attività svolta dagli anni Ottanta di Alpiteam. Probabilmente tutti conoscono Alpiteam, eppure, per l’utilità di questa intervista, penso sia importante avere da te una definizione.

“Alpiteam è una scuola di alpinismo del CAI nata ufficialmente (e con contrasti in seno al sodalizio) nel 1985 con l’intenzione di offrire il proprio organico di istruttori e la propria esperienza tecnico-didattica a tutte quelle sezioni lombarde che non avevano una scuola di riferimento.

Alpiteam non appartiene ad una specifica sezione, sebbene sia ospitata presso la sede CAI di Bovisio Masciago, ma fa capo al Raggruppamento Regionale e Lombardo e partecipa alle riunioni degli organismi tecnici lombardi. Ha un suo statuto, un suo direttore (INA Angelo Pozzi), il sottoscritto (IA) come direttore dei corsi e un organico di istruttori e accompagnatori, titolati ed aiuto. Il suo intendo è di offrire le proprie e competenze tecniche al territorio lombardo.

Come nasce l’idea ad Alpiteam di supportare le attività di montagnaterapia?

“Negli anni Ottanta (1986), sulla scia dell’esperienza di un nostro istruttore che faceva l’educatore presso la comunità Arca di Como, ambito dipendenze patologiche, siamo stati coinvolti come scuola di alpinismo ad accompagnare i ragazzi della comunità in montagna. Da singole uscite abbiamo, in seguito, organizzato il primo corso di alpinismo per la comunità nel rispetto del regolamento della Commissione Scuole di Alpinismo regionale. Quindi la nostra intenzione era quella di organizzare semplicemente un corso di alpinismo per persone con fragilità. L’obiettivo, certo, non era fare montagnaterapia; il nostro ruolo era tecnico. Nel corso degli anni (ogni anno un corso), attraverso questa esperienza, ci siamo accorti che oltre all’aspetto didattico e di accompagnamento in ambiente alpino, si creavano delle relazioni interpersonali significative. L’andare in montagna e l’insegnamento di una tecnica diventavano opportunità e occasione di costruire nuove relazioni, soprattutto per i ragazzi. Ci siamo accorti, parlando soprattutto con Don Aldo Fortunato, fondatore della comunità terapeutica, quanto fosse educativa tale esperienza, quanto fosse arricchente anche per noi. A seguito di tale riflessione abbiamo ritenuto fondamentale che ci fosse un educatore durante le uscite. Le escursioni, le arrampicate e l’attraversamento di ghiacciai erano (e sono) il “setting terapeutico”, il luogo di esperire e vivere emozioni e significati su cui poter elaborare vissuti e valutare scelte future. Perché tutto quello che avveniva nelle uscite era materiale educativo utile al percorso terapeutico del ragazzo. Il corso di alpinismo e il per-corso residenziale si incrociano, dialogano, si distanziano e poi si riavvicinano, dando ai ragazzi strumenti e opportunità per riflettere su di sé, di ritrovare spazio per la parola e giungere ad un discorso più concreto e di scelte rivolte a possibili cambiamenti. È importante che un educatore venga alle nostre uscite e veda cosa avviene, capisca le dinamiche, osservi quali sono gli stati d’animo dei ragazzi. Questa è forse la prima esperienza di “montagnaterapia”, dove il setting educativo si svolge all’esterno della comunità terapeutica e poi ivi riportato. In questo senso, l’esperienza di montagnaterapia nasce per noi, in modo più strutturato e via via modificato, implementato, arricchito, con la genesi dell’idea di Passaggio Chiave nel 2013”.

Come nasce “Passaggio Chiave”?

“Parlando con l’amico Giuliano Fabbrica, un giorno autunnale del 2012, camminando in montagna, ci siamo chiesti: ma perché non portiamo la nostra esperienza vissuta con l’Arca di Como ad altre comunità che si occupano di tossicodipendenza? Io lavoro da anni nel settore come educatore e conoscevo già alcune realtà che organizzavano piccole esperienze di accompagnamento dei loro ragazzi in montagna. Così ho iniziato a prendere contatti, prima con Gianni di Dianova, poi con Fabiano del Molino e, passa parola, con altre realtà. Ci siamo così incontrati a Monza nella sede del Ser.t. di Monza iniziando a riflettere su quanto avevamo in testa, che visione e quali prospettive educative ci attendevano. Intanto si pose il problema dell’identità, di quale nome dare al gruppo; un nome che fosse simbolico del discorso che stavamo iniziando. Il nome Passaggio Chiave nasce da questo confronto e io ho spinto perché fosse scelto: è un termine alpinistico per definire un passaggio difficile in arrampicata, la chiave di svolta che risolve con successo la salita. L’andare in montagna è uno strumento educativo per coloro i quali stanno sperimentando nelle comunità terapeutiche, nei servizi, nei centri diurni, la possibilità di affrontare faticosamente i loro passaggi chiave nel mettere in discussione la loro dipendenza dalle sostanze, da ciò che li ha bloccati nella loro esistenza. Aggiungo che abbiamo partecipato come relatori al convegno nazionale di montagnaterapia a Cuneo nel 2014”.

Come si svolgono le attività di “Passaggio Chiave”?

Le uscite di Passaggio Chiave, decise di anno in anno, sono frutto di un coordinamento interno fra Alpiteam e le comunità/servizi che aderiscono a questa iniziativa. Periodicamente si incontrano i referenti di ogni realtà. In queste riunioni si riflette sul senso educativo e sul valore delle uscite che sono tendenzialmente escursionistiche, con qualche arrampicata in falesia. Si decidono progetti, si discutono problematiche, si fa il punto della situazione. Alpiteam in quanto organo tecnico valuta la fattibilità delle escursioni. (Alpiteam, intanto, continua anche a organizzare il corso di Alpinismo per la comunità terapeutica Arca di Como). Sono ovviamente le comunità a decidere quanti e chi sono i ragazzi che da un punto di vista di percorso comunitario possono partecipare alle escursioni. Le uscite sono percorsi paralleli al cammino fatto in comunità dal ragazzo. Per questo si chiama montagnaterapia. Non perché la montagna “guarisca”, ma perché l’andare in montagna è strumento pedagogico nel percorso di cura all’interno della comunità. Il lavoro terapeutico, che ogni comunità terapeutica compie, come dicevo sopra, avviene prima, durante e dopo la gita. Abbiamo anche organizzato trekking di cinque giorni: la via Francigena toscana nel 2016, da “Zero a Tremila” partendo dal mare per giungere in vetta al Gran Sasso nel 2017, “Sentieri di guerra, sentieri di pace” nel 2018, attorno alle Tre Cime di Lavaredo. Tutto il lavoro pedagogico è stato fatto sia durante i trekking e poi singolarmente nelle Strutture. Inoltre, come Passaggio Chiave, abbiamo organizzato un convegno tre anni fa a Monza e quest’anno, il 15 novembre, ne organizziamo un altro. Questi convegni sono per gli addetti ai lavori dei servizi sociosanitari, sono momenti di riflessione e di proposta con un tema condiviso.

Per le attività di Passaggio Chiave vi è un contributo economico del CAI Lombardia e del CAI Centrale e con tanta fatica anche le comunità destinano un loro budget. Abbiamo poi un grandissimo sponsor che è Sergio Longoni con Sport Specialist”.

Quali sono le chiavi di successo della durata delle attività di montagnaterapia di Alpiteam?

“La passione, l’amicizia, l’amore per la montagna, il voler trovare sempre idee nuove e la scoperta di poter dare a chi ne ha più bisogno un pizzico di solidarietà, ma soprattutto di rendersi conto che siamo stati arricchiti attraverso la relazione con coloro che vengono ritenuti “devianti”. Anche il riconoscimento che negli anni abbiamo avuto (Premio Marcello Meroni) e la considerazione per il nostro operato, nato in silenzio e che man mano ha dato voce al valore della solidarietà di cui è portatore il CAI.

Da un punto di vista assicurativo per l’accompagnamento, quali sono le novità in base alle nuove direttive pubblicate il 1° aprile 2019?

“Sin dall’inizio abbiamo deciso di rendere soci CAI tutti i ragazzi che si iscrivevano al corso per avere copertura assicurativa. Successivamente abbiamo scoperto che sulle patologie certificate non c’era alcuna copertura. È stato formato un gruppo di lavoro (di cui facevo parte) su richiesta del CDC del CAI Centrale, il cui obiettivo era quello di elaborare delle linee guida riguardanti le attività di montagnaterapia che da anni si svolgono in tutta Italia e sulla base di queste poter poi intervenire con un’assicurazione a copertura anche dell’infortunio e non solo per la RC. Dal 1° aprile 2019 chiunque fa attività di montagnaterapia ha una copertura assicurativa. Tali attività devono rientrare nei programmi sociali delle sezioni CAI in collaborazione con i committenti, cioè fra chi chiede l’intervento tecnico ad esperti di montagna. In base al progetto condiviso fra la sezione e la comunità/ente si fa richiesta di una copertura assicurativa. Se i ragazzi e gli educatori che partecipano al progetto non sono soci la quota è di 6 € al giorno, se sono soci pagano 3€ al giorno (per i soci il CAI Centrale interviene con il 50% della quota). Sono assicurazioni giornaliere, ad uscita.

Un consiglio pratico ad una sezione che desidera approcciarsi alle attività di montagnaterapia per la prima volta; cosa diresti loro?

1. Perché vogliono svolgere tali attività? Qual è il senso della scelta?

2. Di formarsi e informarsi (per chi già non lo fosse)

3. Di progettare con puntigliosità il programma e in rete con il committente (servizi…)

4. Di essere consapevoli che il luogo in cui effettuare uscite e altro è l’ambiente alpino

5. Che la montagna deve essere tutelata e rispettata, quindi frequentata come ospiti e non da padroni. E questo vale per tutti

6. La montagnaterapia è anche cura della montagna. La montagnaterapia è dialogo e rispetto reciproco.

Salire n° 21 Giugno 2019 , trimestrale CAI Regione Lombardia

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La montagna non cura! Educa.

Per una “Pedagogia della montagna” … le riflessioni continuano. Di seguito riportiamo il contributo di Gianni Carrino (istruttore sezionale alpiteam)

La montagna non cura, educa! Per una Pedagogia della Montagna.

Così come nell’antica Grecia i maestri avevano la funzione trasmissiva verso gli allievi, anche la montagna assolve questa funzione. Allo stesso tempo la montagna non cura, dove il “non” sta per negazione, ed i “no” aiutano a crescere. Nel rapporto “maestro” (la montagna) ed allievo (i frequentatori) avviene l’atto di educare, l’ex – ducere, ovvero “tirar fuori”.

La montagna educa e i frequentatori prestano attenzione ad essa, sono premurosi, se ne prendono cura. Curare l’ambiente, in generale, e quindi anche la montagna, è un atto che trascende noi stessi, un atto di generosità verso ogni essere. Il prendersi cura di qualcosa e/o di qualcuno è altresì un agire educativo. Un modo per abbandonare l’”io” e il “mio” per coltivare il “noi” e il “nostro”.

La montagna mi ha insegnato a non barare, ad essere onesto con me stesso e con quello che facevo” così scriveva Walter Bonatti (alpinista, scrittore ed esploratore) in Montagne di una vita. È probabile che Bonatti avesse già in mente la “pedagogia della montagna” o semplicemente ha vissuto l’andare in montagna come “mezzo per far crescere l’uomo che è in noi” (W. Bonatti, Una vita così).

La montagna è un ambiente particolare che parla attraverso l’enormità di silenzio che la circonda. Il silenzio impone i suoi ritmi che non sono i nostri usuali, così come il camminare in montagna ha allo stesso modo dei ritmi e delle soste. Il silenzio ci richiama l’occasione di fermarsi, di riflettere, di entrare in contatto con noi stessi e con alcune parti di noi sopite dalla velocità. La montagna parla di lentezze e di ritmi rallentati. La montagna esprime purezza, è un terreno spesso incontaminato, vergine, è ricca di natura che cresce libera e selvaggia o che resta immutata, come le rocce. Molti luoghi che poi raggiungiamo parlano della bellezza: grandiose visioni, improvvisi incontri, orizzonti infiniti. La montagna parla della nostra capacità di ascoltare, di sentire e di provare vissuti e sensazioni (Un contesto pedagogico, Fabiano Gorla).

In educazione un’attenta scelta del contesto in cui andiamo ad operare molto importante, detto con le parole del filosofo dell’educazione e pedagogista Riccardo Massa: “il contatto con l’elemento naturale non si limita ad essere un ingrediente, seppur irrinunciabile; è al contrario il riferimento nodale, il nucleo dal quale traggono spunto e sul quale si innestano tutte le attività”.

G.C.

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Pedagogia della montagna

Pedagogia della montagna, uno scritto del direttore dei corsi Beppe Guzzeloni.

  • Drogarsi consiste nell’assumere sostanze che alterano la coscienza e il corpo è la via attraverso il quale il soggetto accede ad una sensazione di forza, di estraneazione, di assolutezza e di totalità.
  • Drogarsi significa acquisire “un’ identità” con stili di vita, modi di essere e di relazionarsi condizionati dall’abuso.
  • Il lavoro educativo si basa sulla relazione e prospetta il passaggio dalla tossicomania ad un sintomo personale. Tale passaggio ne prevede un altro, complementare e non semplice nella sua attuazione. Il passaggio dal corpo alla parola.
  • Il tossicodipendente porta con sé la difficoltà a rappresentarsi con la parola. E solamente se coglie nella parola, propria e dell’altro, una possibile alternativa alla droga che quell’identità che si è costruita, può essere messa in discussione.
  • Il percorso di cura e di apprendimento consiste nel vivere l’esperienza, della soggettività che si “tuffa” nell’oggettività della realtà e da questa trasformata. Consiste, inoltre, nell’accompagnare il tossicodipendente sulla strada di una rappresentazione di sé non più frutto della costruzione sociale (stigma), ma della consapevolezza che “ho dei problemi”.
  • Questo è possibile solo se vi è rielaborazione del ricordo e dell’agito. Spesso il ricordo viene rimosso, ma viene agito (sintomo). La tossicodipendenza è l’agito del rimosso, il sintomo di una sofferenza.

 

E l’andare in  Montagna?

 E’ lo ( o uno degli spazi) spazio e luogo (ambiente naturale ed umano) in cui il corpo può viversi e sperimentarsi. Un luogo particolare dove vivere l’opportunità di darsi un tempo per sé, con gli altri o da solo, in cui poter prendere contatto con se stessi. E’ l’opportunità di cominciare a “scoprirsi” attraverso la conoscenza di un ambiente naturale ed umano, mediante azioni, esperienze ( cammino, arrampicata…) che, se accompagnati nell’elaborazione del vissuto, aiutano ad aprirsi a se stessi e alla propria rappresentazione, “del chi sono io”. L’andare in montagna è uno stato mentale, una dimensione esistenziale, luogo delle piccole e grandi domande, specchio della propria coscienza. L’aspetto pedagogico, però, non è solamente fare delle attività in montagna, magari in modo consumistico, ma è quello di aiutare a vivere la montagna come luogo da rispettare, conoscere e difendere. La montagna è il luogo in cui natura e cultura, uomo e paesaggio, convivono nella ricerca del proprio equilibrio. Non vado in montagna per rischiare, ma imparo ad affrontare e gestire il rischio poiché è insito dell’ambiente.

 

Per pedagogia della montagna si intende la costruzione intenzionale di un setting, di un dispositivo emotivo, formativo ed educativo che ha come obiettivo la cura di sé, che investe  la vita interiore del soggetto e ne promuove la crescita personale. Tale processo si svolge, cresce e matura nel contesto alpino come luogo in cui natura e cultura, uomo e paesaggio, convivono nella ricerca del proprio equilibrio. Ciò può avvenire solo se “si fa esistere” la montagna non solo come spazio naturale (geologico, botanico e zoologico) ma dalle invenzioni estetiche, dalle metafore e dalle simbologie umane. La montagna come luogo di espressione educativa intesa come possibilità di elevazione oltre che fisica (rappresentazione corrispondente ai propri bisogni) soprattutto spirituale. E’ nel rapporto, nella relazione, nell’apertura consapevole e responsabile tra soggetto e ambiente alpino che possono crearsi  le opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali. E’ un processo che mi porta a “sentirmi parte” dell’ambiente alpino. ”Sentire e avere la montagna dentro” è un lungo cammino fatto di motivazione,  esperienze e conoscenza: trovare il senso di camminarla, arrampicarla, guardarla e osservarla comunque ( imparare un territorio). E’ il significato di andare in montagna, al di là della mete, delle motivazioni. Basta andarci. Toccare un appiglio, allacciarsi i ramponi, osservare degli stambecchi o intuire i movimenti di una marmotta, alzarsi all’alba, avere paura di attraversare un crepaccio, godere del vento….Provare l’impotenza davanti ad una montagna e alla sua sacralità è una sensazione di bellezza e stupore, di elevazione , di paura e di interrogativi.  La montagna stimola l’istinto: i sensi sono cardini per la ragione, la conoscenza e la memoria. Il camminare, l’alpinismo, l’arrampicare devono diventare azioni consapevoli di conoscenza di sé e dell’ambiente in cui si svolgono tali attività. La conoscenza di sé (limiti, scoperta di emozioni, espressione del corpo, scoperta di possibilità proprie….), l’apprendimento di una tecnica, l’esperienza della frequentazione della montagna  diventano luoghi di cura nella misura in cui “ mi occupo” anche di tutelare lo spazio che mi offre l’opportunità di cambiamento sia dal punto di vista della salute che di crescita umana e sociale. La cura di sé è imprescindibile dalla cura dell’ambiente alpino. La valenza pedagogica nel promuovere una relazione responsabile tra soggetto e ambiente alpino, offre la possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale e ad una maggior consapevolezza che “la patologia” non annulla il poter esprimere la propria “cittadinanza”.

 

Alcuni obiettivi educativi

Processo di apprendimento e miglioramento del funzionamento cognitivo

Migliorare le capacità di socializzare

Attenzione all’altro

Superare lo stigma

Dare senso alla fatica

Capacità di adattamento

Acquisire e migliorare competenze

Dare senso alla rinuncia, accettare” Il no”

Dare senso al rischio e al coraggio

Passare dall’agire al pensare

Accettazione di sé

Controllo dell’ansia e dell’impulsività

Autonomia e interdipendenza

Coerenza e continuità

Scegliere e valutare

Saper attendere e dare senso al tempo

 

In sintesi

L’andare in montagna ( nelle sue varie espressioni) è una scelta personale e ha una valenza pedagogica (paradigma) perché:

  • È opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali ( offuscate dall’abuso)
  • E’ opportunità di tradurre l’agire in parola ( vivo e dico ciò che sento, penso..)
  • Interazione con un ambiente particolare ( conoscenza)
  • Opportunità “politica” di partecipazione ( rispetto ambiente e impegno per la sua salvaguardia)
  • Acquisizione di una propria “visione” del mondo

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