Mi fermo qui…e vado oltre (2)

di Beppe Guzzeloni

Giorni fa, Matteo Bertolotti, mi chiese se avevo voglia di scrivere un articolo per il nuovo numero de “lo Zaino” su alpinismo e disagio sociale. Argomento difficile e complesso, almeno per me. Nonostante una certa mia esperienza sia professionale che nell’organizzazione di corsi di alpinismo per persone che il disagio sociale lo vivono sulla propria pelle, vite rinviate. Una richiesta che mi ha lasciato comunque perplesso. Avevo deciso di non scrivere più nulla sulla cosiddetta montagnaterapia, termine da me poco usato, in quanto la mia riflessione aveva raggiunto una sorta di saturazione, di un “troppo pieno”.  Sentivo il bisogno di fermarmi e di chiarirmi le idee, ma allo stesso tempo emergeva in me il desiderio di andare oltre. Volevo trovare la strada che mi portasse a immaginare e realizzare progetti in cui l’alpinismo, e non il semplice accompagnamento escursionistico in montagna, diventasse strumento e opportunità di cambiamento per quelle persone che attraversano quotidianamente fragilità e vulnerabilità sociali, psico-fisiche ed esistenziali. Ed ecco che la “chiamata” di Willy mi spiazza, cerca di rimettermi in gioco solleticandomi pensieri diversi. Seppur ancora confusi.

Nelle ultime mie riflessioni apparse sullo Zaino riguardanti la pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano per descrivere ciò che di più profondo è dentro di noi, quel senso musicale e vitale che ci sollecita ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura e di introspezione. Da qui la pedagogia della montagna come affinità tra fragilità e bellezza, come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta e ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora” e sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà in cui agire con il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. E mi ponevo la domanda se la montagna è quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura e di mistero. E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Riflettevo, inoltre, come l’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza che presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. E’ così che intendo la pedagogia della montagna: una risorsa verso un viaggio verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta educativa per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esiste. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo nuovo. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una “salita” ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La pedagogia della montagna intesa come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica che agisce nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori, ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà; esperienza che tende alla “visibilità”, come la pensava I.Calvino,  e cioè non come pronunciamento dell’Io, come spinta egotica, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento, come esigenza di integrità. La pedagogia della montagna come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la pedagogia della montagna oggi è come riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la pedagogia della montagna diventa azzardo educativo, sguardo ulteriore dentro sé stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va vissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’alpinismo per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio delle montagne cerco la solitudine che è dentro di me e che mi aiuta a comunicare con l’altro. Alpinismo è opportunità di vivere l’avventura che spinge ad andare oltre sé stessi (scalando una parete) per andare verso l’altro per accoglierlo mentre lo incrociamo sulla strada della sua sofferenza superando frammentazioni, disimpegno e individualismo.

A questo punto, mi chiedo, quale rapporto ci può essere tra alpinismo e disagio sociale? Qual è il senso di tale domanda? Ci sono molte buone ragioni per le quali l’alpinismo (gli alpinismi?) dovrebbe chiedersi se la sua pratica possa contribuire a fornire una risposta esistenziale per coloro i quali attraversano le varie forme del disagio: sociale, esistenziale, psicologico, cognitivo, fisico… E questa è una domanda di fondo che l’alpinismo deve porsi e continuare a porsi. Vi sono state e vi sono risposte e testimonianze significative a tal riguardo. Esperienze e storie di alpinisti che hanno preso su di sé “la fatica dell’altro” (E.Hillary, G. Rossa, R. Videsott, B. Bonali , F. De Stefani, solo per citarne alcuni), ma vi sono altrettante “storie minori” che parlano di un alpinismo “solidale”. Deve avvenire una conversione nel mondo dell’alpinismo e ciò è possibile se avviene una crisi d’identità, solo se esso viene travolto da uno sguardo altro, una presenza, quasi nascosta ai nostri occhi, che interpella la nostra libertà che noi diamo per scontata e che cerchiamo di conservare a tutti i costi attraverso le nostre scalate. Ma l’esistenza reale di questo sguardo altro, disagiato e disagiante, ci rivela l’inconsistenza di tale libertà. Paradossalmente, l’azione alpinistica non teme il nuovo, lo sconosciuto di una parete, anzi l’alpinismo è alpinismo di ricerca di un nuovo equilibrio tra vecchio e nuovo, ma si arretra volgendo altrove il proprio orizzonte di fronte ad una mano tesa che arriva dal mondo sofferente come uno tsunami improvviso e sconvolgente. Eppure, tale evento vissuto come rottura di continuità dentro di sé e fra sé e il mondo, potrebbe essere il punto di arrivo di un lungo processo maturativo che ha attraversato e attraversa tuttora le varie fasi della storia dell’alpinismo, potendo così diventare più consapevoli sperimentando, come inizio della conversione, il buio e la cecità che ci imprigionano.

Quale alpinismo e quale passione per la montagna possono essere un’opportunità di risposta e testimonianza per il mondo del disagio? Non certo intesi come una relazione esclusiva, assoluta tra il soggetto e l’oggetto, tra me e la montagna, dove l’Altro sociale è escluso. Una relazione in cui l’oggetto diventa indispensabile, esigenza indifferibile, un qualcosa che non può venir meno, un qualcosa che non può mancare, dove il rischio potrebbe diventare condotta ordalica che si spinge fino alla sfida nichilista.

La mia esperienza, la mia scommessa e la mia proposta, non si fermano al semplice, seppur importante e significativo, accompagnare in montagna nel fare belle escursioni. Vorrei andare oltre, vorrei parlare e praticare l’alpinismo come opportunità di recupero di potenzialità, risorse e qualità, proprie dell’individuo, e da lui non più riconoscibili e utilizzabili prontamente, a causa delle limitazioni esistenziali derivate da deprivazioni relazionali, povertà economica e educativa. La montagna in quanto spazio naturale ricco di suggestioni metaforiche e simboliche, può diventare uno strumento di ricomposizione di sé; e l’alpinismo, in quanto attività umana, diventa linguaggio, assume su di sé un discorso e un modo di essere. Seguire un percorso di verticalità o raggiungere una cima per una cresta di misto o una nord, significa provare uno stato di eccitazione, di attività espansiva e di contatto con sè stessi che aiutano a comprendere “che ce la si può fare” ad inoltrarsi in cammini evolutivi. Inoltre significa raggiungere uno stato di maggior equilibrio psichico e di contenimento emotivo, di libertà espressiva. Un alpinismo ben cosciente di essere un’attività dagli elevati contenuti di imponderabilità, pur esprimendosi in una società dove incognite e rischi tendono ad essere ridotti al minimo. Un alpinismo di scoperta dentro di sé, una sorta di esplorazione verticale. Il passaggio dal fare al pensare è fondamentale e si intreccia con il fare con e il pensare con il contesto relazionale (istruttori ed educatori) attraverso le funzioni di accompagnamento, con i processi di ricostruzione e di ri-apprendimento, di riconoscimento e di confronto tra Sé e la realtà esterna.

Dove il pensare significa riprendere a vedere, capire, misurare, prevedere, intuire, ricordare, elaborare e comunicare ciò che si apprende dall’esperienza. Consente una costruzione o ri-costruzione di una rete di rapporti sociali che possa essere progressivamente interiorizzata, fatta propria. La fatica e la bellezza; l’impegno e la determinazione; la rinuncia e la conquista; la paura e il coraggio; la notte e la pioggia; il sole e la bellezza dei panorami; le pareti e le creste; legarsi in cordata e la fiducia; l’attenzione all’altro e la responsabilità; l’accettazione del limite e la trasgressione. Dove il “passo dopo passo” significa cambiamento, spostamento e incontro. Queste sono esperienze vitali che prendono forma attraverso il linguaggio. L’alpinismo e il vivere lo spazio alpino esprimono un nesso tra cultura e natura, tra mente e corpo. Ci si mette in gioco in un certo ambiente e nelle relazioni, nelle cose da fare, nell’agire nel creare esperienze. E tutto ciò attraverso il linguaggio. Sono esperienze educative, dove il concreto, l’agito, il “vissuto” interagisce con il pensiero; cioè sul perché faccio, agisco, scelgo, sento, cosa dice per me. È il setting terapeutico: l’esperienza diventa riflessione, elaborazione, creazione di senso, possibilità di cambiamento.

Alpinismo è apprendere una tecnica: come ci si muove in sicurezza in montagna, come si procede su un ghiacciaio, come si arrampica su una parete di roccia. Come si prepara uno zaino, come si fanno i nodi, come ci si prepara ad una salita e la si programma. Legarsi in cordata, oltre che apprendimento di una tecnica, assume pregnanza metaforica: è da un lato responsabilità, stima di sé, fiducia; ma dall’altro è costrizione, legame, vincolo; ma è anche condivisione nel raggiungimento di un obiettivo. Alpinismo significa provare a “cambiare il mondo”.

Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel mondo, pur essendo del mondo. Staccare il corpo da terra è un modo per fuggire dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio. Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un motivo. L’alpinismo non è solo “salire delle montagne perché esistono” (Mallory), alpinismo è salirle perché mi parlano, mi attraggono, “hanno qualcosa da dirmi”., mi toccano dal di dentro, mi incutono timore nella loro saggezza.  Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.

Arrampicare, in alpinismo, è come avvolgersi in una preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. Arrampicare è uno svuotarsi di ruoli, compiti, doveri. Apparenze. Arrampicare è come lo sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni. Arrampicare è scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso dell’accoglienza.

Arrampicare è il movimento della nostra esistenza verso lo sguardo benevolo del cielo che ci protegge, l’intorno che ci avvolge, la verticale che ci seduce; qualche appiglio che chiama le dita, un appoggio per i piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. È un modo umano “per cambiare il mondo”

Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io sconosciuto che io sono. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire. Arrampicare è la nascita di un gesto che si intreccia a sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita; concentrazione emotiva e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. È gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera sé stessa. 

Arrampicare è dialogo con la vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà dove l’azione domina di nuovo, ha ripreso il sopravvento, e il sensibile ha ritrovato in noi il posto che gli spetta. Alpinismo è vertigine che cammina sull’opportunità e possibilità di cambiamento. E non si gioca impunemente con la vertigine (A. Lochmann,“Il bacio della vertigine”), così come con qualsiasi altra ebbrezza che possiamo imporci (alcol, sostanze stupefacenti, gioco d’azzardo, stati d’animo eccitati, impulsività…) per scuotere la stabilità della nostra percezione. Il rischio è quello di perdervisi.

Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta in tutti i suoi segreti. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio. Ma non solo. Ogni volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né di avere.

Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è memoria storica…a volte nostalgia. Arrampicare è la verità eretica che si manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e insufficienti. Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. 

Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione, contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico, tempo e spazio. Il vuoto non è la nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può essere raccontata. (E. Camanni).

 Alpinismo è perdersi e ritrovarsi. Poesia della scoperta di sé, possibilità di cambiamento nell’accoglimento dell’altro da me. La conversione dell’alpinismo, la nuova identità dell’alpinismo, secondo me, è il cammino della ricerca attiva di sé con la montagna vissuta come soggetto vivente e come partner in quel cammino verso l’espressione della sensibilità per l’umano con le sue fragilità e debolezze. Un alpinismo, incarnato storicamente, che si volge verso il volto dell’Altro come espressione di un’identità umana all’incrocio tra il visibile (reale) e l’invisibile (la sua essenza). Il volto dell’altro come fenomeno sociale, come l’estrema avanzata nel mondo, come prua del destino personale.

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Per una pedagogia della montagna

Proseguono i contributi per una Pedagogia della Montagna. Un altro interessante articolo di Beppe Guzzeloni (Istruttore regionale di alpinismo).

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere” così scrive nei suoi diari il poeta inglese William Blake (1757-1827)

Non so perché, leggendo questa frase, mi è subito venuto in mente la favola “Il Piccolo Principe” dello scrittore francese Saint-Exupery. Un testo poetico che, per un gran numero di persone, è divenuto il racconto chiave della loro vita.

Anche per me. Questo libro, nella mia adolescenza, è stato il rifugio nelle ore di solitudine, conforto nei momenti di delusione. Un compagno indispensabile per riprendere fiducia e rinnovare il cammino della speranza.

Ma soprattutto “Il Piccolo Principe” è stato un forte messaggio educativo in grado di ricostituire la fiducia nella fedeltà incondizionata dell’amore; promette e impersona un mondo dell’impegno e della responsabilità reciproca ed evidenzia un legame d’amore, un alto canto di amicizia, semplicità e bellezza.

Perché stupirsi se “Il Piccolo Principe” ha finito per diventare la figura di un’umanità ideale?

Il suo sguardo retrospettivo nel regno dell’innocenza infantile e, soprattutto, il suo sguardo rivolto alle stelle, che nelle notti insonni, ci parlano di un invisibile pianeta di una straordinaria rosa e del suo mistero, ci ridona la profondità del sognare e l’ampiezza del cuore che credevamo ormai perduti.

E possibile sperare. A patto che vi sia attenzione per la rosa, che si abbia cura di lei, che la si protegga, che si faccia il possibile per lei. Con scelte consapevoli, con costanza e con la passione per il futuro da costruire.

Mi viene ora spontaneo e naturale portare il discorso sulla montagna, sull’ambiente alpino e della sua frequentazione sostenibile; del suo rispetto e della sua tutela. E qui ancora riporto una frase di Saint Exupery: ” la montagna è uno specchio, una provocazione del sublime; essa esalta ciò che ciascuno porta in sé di più ardente…”.  

Come scrive F.Tomatis nel suo bellissimo libro “ La via della montagna”, la rivoluzione montana può accadere, spontaneamente, nella misura in cui la visione diventa verticale. Orizzonte e monte, verticalità e cammino, ascesi e ritorno, ascensione e ridiscesa nel mondo sono naturali complementarietà della rivoluzione montana. Una rivoluzione che esige un cammino, una salita trasformativi tra natura e cultura.

L’ambiente alpino è un bene comune. E lo è nel momento in cui ne viene riconosciuto il valore da parte di chi si interroga e decide su come partecipare alla sua conservazione e alla sua trasformazione. “Spazio di vita” così intende la Convenzione Europea.

Un ambiente non solo da guardare, attraversare, godere mediante attività escursionistiche o alpinistiche, intese anche come opportunità per raggiungere condizioni di benessere fisico e psichico. Sicuramente non un luogo da consumare e sfruttare.

Quello che è importante non è tanto la conquista della vetta, seppur ha il suo valore, ma è il tu per tu con la roccia, con la neve, con il ghiaccio che è insostituibile: toccare, vedere, gli odori, i colori. E’ un’esperienza indimenticabile, è come una danza, la danza dell’appartenenza dell’ambiente che vivo. La vita di montagna, con il suo isolamento, con la presenza continua di pericoli, incoraggia lo sviluppo di due tendenze opposte della personalità umana: da un lato rafforza l’individualismo, dall’altra il bisogno di collaborare con il gruppo e di essere comunità.

L’ambiente alpino non è quindi un passivo diritto di fruizione, ma richiede l’esercizio della responsabilità individuale e collettiva finalizzato alla sua salvaguardia.

 La cura del paesaggio e il diritto delle persone a beneficiarne, sono strettamente interdipendenti e richiedono azioni di solidarietà civile e di partecipazione responsabile.

Si tratta, quindi, di avere la possibilità di prendersi cura di sé con la consapevolezza che la tutela della montagna (ambiente, cultura, paesaggio, territori, tradizioni) sono la conditio sine qua non per salvaguardare anche il mio e altrui benessere.

L’ecologia umana è inseparabile dalla nozione di bene comune; un principio che svolge un ruolo importante nell’etica sociale. Il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale e la cura per la natura attraverso un cambiamento degli stili di vita che implicano la capacità di vivere insieme e in comunione con il creato. Il bene comune presuppone una cultura della cura, come ricorda Papa Francesco nell’enciclica “Laudato Si”.

Per pedagogia della montagna, quindi, intendo la costruzione intenzionale di un dispositivo emotivo, formativo ed educativo che ha come obiettivo la cura di sé e che investe la vita interiore del soggetto promuovendone la crescita personale. Pedagogia della montagna come conversione alla cultura della cura.

Esso è il risultato di un processo che si svolge, cresce e matura nel contesto alpino come luogo in cui natura e cultura, persona e paesaggio, territori e tradizioni convivono nella ricerca del proprio equilibrio.

E’ nel rapporto, nella relazione, nell’apertura consapevole e responsabile tra soggetto e ambiente alpino che possono crearsi le opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali e di salvaguardia della montagna.

Il camminare, l’alpinismo, l’arrampicare devono diventare azioni consapevoli di conoscenza di sé e dell’ambiente in cui si svolgono tali attività. La conoscenza di sé (limiti, scoperta di emozioni, espressione del corpo, scoperta di possibilità proprie…), l’apprendimento di una tecnica, l’esperienza della frequentazione della montagna diventano luoghi di cura nella misura in cui “ mi occupo” anche di tutelare e salvaguardare lo spazio che mi offre l’opportunità di cambiamento sia dal punto di vista della salute che di crescita umana e sociale.

La valenza pedagogica nel promuovere una relazione responsabile tra soggetto e ambiente alpino, offre la possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale e ad una maggior consapevolezza che “la patologia” non annulla il poter esprimere la propria “cittadinanza”.

Come suggerisce Salvatore Settis in un suo scritto, occorre pensare il paesaggio e l’ambiente alpino come “teatro della democrazia”, luogo di diritti e di doveri.

La pedagogia della montagna è la manifestazione di come si può intendere, ritornando al Piccolo Principe, “l’attenzione alla rosa” e di come apprendere il mistero dell’amicizia e della cura dell’Altro ( persona, ambiente, relazione…).

 Il prendersi cura consiste in un paziente, lento, progressivo processo di ‘conoscenza’. Conoscere per fare e per essere; conoscere per andare e andare sicuri; un conoscere per capire, per amare e tutelare il luogo che mi accoglie. La montagna include chi la rispetta, chi la difende e protegge. La montagna, nella sua severità e asprezza, è accogliente.

 Solo così cresce il desiderio di conoscere e sentire sempre di più, di proseguire oltre e di capire più profondamente il mistero dell’Altro (montagna).

La pedagogia della montagna è il passaggio “obbligato” che deve essere affrontato per fare in modo che le scelte e le azioni finalizzate alla cura di sé attraverso la frequentazione della montagna si intreccino, dialoghino, abbraccino la montagna stessa attraverso la consapevolezza, i comportamenti, le prese di posizione, anche pubbliche, per il suo rispetto, la sua tutela e salvaguardia.

“Le montagne sono una sorta di miracolo: suscitano i sentimenti più disparati, riempiono di idee, spingono ad imprese, incuriosiscono, incutono paure, dissetano necessità.” Scrive il giornalista Enrico Martinet.

La pedagogia della montagna è una proposta, una sollecitazione: un invito a viverla. Ma non come senso di sfida agli elementi, di una volontà di dominio, di potenza o di bisogno di consumo; ma solo di corrispondenza, di confronto, di dialogo, di rispetto.

La pedagogia della montagna è un approccio delicato e dedicato alla conoscenza dell’ambiente alpino. Imparare un territorio è viverlo e la sua memoria è il frutto dell’esperienza.

Pedagogia della montagna non è solo la sfida che consiste nell’affrontare il mondo delle terre alte, ma sta nel riconoscerlo. Pareti, cime, ghiacciai, nevai, fiori, piante, pascoli, alpeggi, sentieri e accenni di sentieri. E’ l’esperienza da vivere per “sentirsi parte” di ciò che osservo, tocco, su cui cammino, arrampico. E l’esperienza di ritrovare i propri sensi: il vento freddo di masse glaciali, l’irradiazione dei massi, l’odore forte di erbe, l’udire il silenzio che pervade i boschi, porre attenzione a dove metto i piedi, a prestare interesse per quell’alpeggio, quella baita, quel muretto a secco.

La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Ora, questa esperienza dovrebbe essere la manifestazione di un’ulteriore presa di coscienza, di una diversa visione, di nuove scelte e coerenze: bisogna allargare lo sguardo e creare un nuovo linguaggio.

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere”. Credo che sia il momento di dover andare in direzione contraria all’appiattimento sull’esistente, sul “buon senso e dell’ovvietà” sfidando la gravità del qualunquismo con lo sguardo rivolto ad un futuro sostenibile per le Terre alte e avendo un sogno, una domanda. La pedagogia della montagna è lo sforzo, il perenne tentativo di creare un ponte tra sé e la società, per una pacifica esistenza delle persone, in un armonioso rapporto con l’ambiente e la natura alpina, innanzitutto coi propri simili, con ogni creatura, attraverso un costante equilibrio fra visibile ed invisibile, esperienza concreta e mistero.

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La montagna come risorsa pedagogica

Riportiamo integralmente l’intervista a Beppe apparsa sul periodico Salire del CAI Regione Lombardia

MONTAGNATERAPIA: LA MONTAGNA come risorsa pedagogica

L’ESPERIENZA DI “PASSAGGIO CHIAVE”

Intervista a Beppe Guzzeloni Istruttore di alpinismo di Alpiteam, Scuola di Alpinismo Lombarda

di Isabella Minelli – Sez. di Milano

“Passaggio Chiave” è nata nel 2013 come attività di montagnaterapia a supporto delle dipendenze.

Specificatamente è composta da una rete che accoglie in sé l’esperienza tecnico-didattica di Alpiteam e l’attività terapeutica e pedagogica di comunità e servizi come l’Arca di Como, Dianova

sedi di Garbagnate e Cozzo Lomellina, Il Molino della Segrona, Il Progetto di Castellanza, la Solaris di Triuggio, il Sert di Monza (Ats e Asst) e di Lecco, i Noa di Vimercate e di Baranzate. Nel loro

programma riabilitativo e di cura hanno inserito l’andare in montagna come “strumento educativo”.

Beppe Guzzeloni è stato uno dei protagonisti di questo progetto sin dagli esordi, ancor di più ha svolto attività di” montagnaterapia” dal 1985, ancor prima che fosse coniato questo termine (nasce nel 1999). Di seguito viene riportata l’intervista in merito all’esperienza di “Passaggio Chiave” con riferimenti anche a tutta l’attività svolta dagli anni Ottanta di Alpiteam. Probabilmente tutti conoscono Alpiteam, eppure, per l’utilità di questa intervista, penso sia importante avere da te una definizione.

“Alpiteam è una scuola di alpinismo del CAI nata ufficialmente (e con contrasti in seno al sodalizio) nel 1985 con l’intenzione di offrire il proprio organico di istruttori e la propria esperienza tecnico-didattica a tutte quelle sezioni lombarde che non avevano una scuola di riferimento.

Alpiteam non appartiene ad una specifica sezione, sebbene sia ospitata presso la sede CAI di Bovisio Masciago, ma fa capo al Raggruppamento Regionale e Lombardo e partecipa alle riunioni degli organismi tecnici lombardi. Ha un suo statuto, un suo direttore (INA Angelo Pozzi), il sottoscritto (IA) come direttore dei corsi e un organico di istruttori e accompagnatori, titolati ed aiuto. Il suo intendo è di offrire le proprie e competenze tecniche al territorio lombardo.

Come nasce l’idea ad Alpiteam di supportare le attività di montagnaterapia?

“Negli anni Ottanta (1986), sulla scia dell’esperienza di un nostro istruttore che faceva l’educatore presso la comunità Arca di Como, ambito dipendenze patologiche, siamo stati coinvolti come scuola di alpinismo ad accompagnare i ragazzi della comunità in montagna. Da singole uscite abbiamo, in seguito, organizzato il primo corso di alpinismo per la comunità nel rispetto del regolamento della Commissione Scuole di Alpinismo regionale. Quindi la nostra intenzione era quella di organizzare semplicemente un corso di alpinismo per persone con fragilità. L’obiettivo, certo, non era fare montagnaterapia; il nostro ruolo era tecnico. Nel corso degli anni (ogni anno un corso), attraverso questa esperienza, ci siamo accorti che oltre all’aspetto didattico e di accompagnamento in ambiente alpino, si creavano delle relazioni interpersonali significative. L’andare in montagna e l’insegnamento di una tecnica diventavano opportunità e occasione di costruire nuove relazioni, soprattutto per i ragazzi. Ci siamo accorti, parlando soprattutto con Don Aldo Fortunato, fondatore della comunità terapeutica, quanto fosse educativa tale esperienza, quanto fosse arricchente anche per noi. A seguito di tale riflessione abbiamo ritenuto fondamentale che ci fosse un educatore durante le uscite. Le escursioni, le arrampicate e l’attraversamento di ghiacciai erano (e sono) il “setting terapeutico”, il luogo di esperire e vivere emozioni e significati su cui poter elaborare vissuti e valutare scelte future. Perché tutto quello che avveniva nelle uscite era materiale educativo utile al percorso terapeutico del ragazzo. Il corso di alpinismo e il per-corso residenziale si incrociano, dialogano, si distanziano e poi si riavvicinano, dando ai ragazzi strumenti e opportunità per riflettere su di sé, di ritrovare spazio per la parola e giungere ad un discorso più concreto e di scelte rivolte a possibili cambiamenti. È importante che un educatore venga alle nostre uscite e veda cosa avviene, capisca le dinamiche, osservi quali sono gli stati d’animo dei ragazzi. Questa è forse la prima esperienza di “montagnaterapia”, dove il setting educativo si svolge all’esterno della comunità terapeutica e poi ivi riportato. In questo senso, l’esperienza di montagnaterapia nasce per noi, in modo più strutturato e via via modificato, implementato, arricchito, con la genesi dell’idea di Passaggio Chiave nel 2013”.

Come nasce “Passaggio Chiave”?

“Parlando con l’amico Giuliano Fabbrica, un giorno autunnale del 2012, camminando in montagna, ci siamo chiesti: ma perché non portiamo la nostra esperienza vissuta con l’Arca di Como ad altre comunità che si occupano di tossicodipendenza? Io lavoro da anni nel settore come educatore e conoscevo già alcune realtà che organizzavano piccole esperienze di accompagnamento dei loro ragazzi in montagna. Così ho iniziato a prendere contatti, prima con Gianni di Dianova, poi con Fabiano del Molino e, passa parola, con altre realtà. Ci siamo così incontrati a Monza nella sede del Ser.t. di Monza iniziando a riflettere su quanto avevamo in testa, che visione e quali prospettive educative ci attendevano. Intanto si pose il problema dell’identità, di quale nome dare al gruppo; un nome che fosse simbolico del discorso che stavamo iniziando. Il nome Passaggio Chiave nasce da questo confronto e io ho spinto perché fosse scelto: è un termine alpinistico per definire un passaggio difficile in arrampicata, la chiave di svolta che risolve con successo la salita. L’andare in montagna è uno strumento educativo per coloro i quali stanno sperimentando nelle comunità terapeutiche, nei servizi, nei centri diurni, la possibilità di affrontare faticosamente i loro passaggi chiave nel mettere in discussione la loro dipendenza dalle sostanze, da ciò che li ha bloccati nella loro esistenza. Aggiungo che abbiamo partecipato come relatori al convegno nazionale di montagnaterapia a Cuneo nel 2014”.

Come si svolgono le attività di “Passaggio Chiave”?

Le uscite di Passaggio Chiave, decise di anno in anno, sono frutto di un coordinamento interno fra Alpiteam e le comunità/servizi che aderiscono a questa iniziativa. Periodicamente si incontrano i referenti di ogni realtà. In queste riunioni si riflette sul senso educativo e sul valore delle uscite che sono tendenzialmente escursionistiche, con qualche arrampicata in falesia. Si decidono progetti, si discutono problematiche, si fa il punto della situazione. Alpiteam in quanto organo tecnico valuta la fattibilità delle escursioni. (Alpiteam, intanto, continua anche a organizzare il corso di Alpinismo per la comunità terapeutica Arca di Como). Sono ovviamente le comunità a decidere quanti e chi sono i ragazzi che da un punto di vista di percorso comunitario possono partecipare alle escursioni. Le uscite sono percorsi paralleli al cammino fatto in comunità dal ragazzo. Per questo si chiama montagnaterapia. Non perché la montagna “guarisca”, ma perché l’andare in montagna è strumento pedagogico nel percorso di cura all’interno della comunità. Il lavoro terapeutico, che ogni comunità terapeutica compie, come dicevo sopra, avviene prima, durante e dopo la gita. Abbiamo anche organizzato trekking di cinque giorni: la via Francigena toscana nel 2016, da “Zero a Tremila” partendo dal mare per giungere in vetta al Gran Sasso nel 2017, “Sentieri di guerra, sentieri di pace” nel 2018, attorno alle Tre Cime di Lavaredo. Tutto il lavoro pedagogico è stato fatto sia durante i trekking e poi singolarmente nelle Strutture. Inoltre, come Passaggio Chiave, abbiamo organizzato un convegno tre anni fa a Monza e quest’anno, il 15 novembre, ne organizziamo un altro. Questi convegni sono per gli addetti ai lavori dei servizi sociosanitari, sono momenti di riflessione e di proposta con un tema condiviso.

Per le attività di Passaggio Chiave vi è un contributo economico del CAI Lombardia e del CAI Centrale e con tanta fatica anche le comunità destinano un loro budget. Abbiamo poi un grandissimo sponsor che è Sergio Longoni con Sport Specialist”.

Quali sono le chiavi di successo della durata delle attività di montagnaterapia di Alpiteam?

“La passione, l’amicizia, l’amore per la montagna, il voler trovare sempre idee nuove e la scoperta di poter dare a chi ne ha più bisogno un pizzico di solidarietà, ma soprattutto di rendersi conto che siamo stati arricchiti attraverso la relazione con coloro che vengono ritenuti “devianti”. Anche il riconoscimento che negli anni abbiamo avuto (Premio Marcello Meroni) e la considerazione per il nostro operato, nato in silenzio e che man mano ha dato voce al valore della solidarietà di cui è portatore il CAI.

Da un punto di vista assicurativo per l’accompagnamento, quali sono le novità in base alle nuove direttive pubblicate il 1° aprile 2019?

“Sin dall’inizio abbiamo deciso di rendere soci CAI tutti i ragazzi che si iscrivevano al corso per avere copertura assicurativa. Successivamente abbiamo scoperto che sulle patologie certificate non c’era alcuna copertura. È stato formato un gruppo di lavoro (di cui facevo parte) su richiesta del CDC del CAI Centrale, il cui obiettivo era quello di elaborare delle linee guida riguardanti le attività di montagnaterapia che da anni si svolgono in tutta Italia e sulla base di queste poter poi intervenire con un’assicurazione a copertura anche dell’infortunio e non solo per la RC. Dal 1° aprile 2019 chiunque fa attività di montagnaterapia ha una copertura assicurativa. Tali attività devono rientrare nei programmi sociali delle sezioni CAI in collaborazione con i committenti, cioè fra chi chiede l’intervento tecnico ad esperti di montagna. In base al progetto condiviso fra la sezione e la comunità/ente si fa richiesta di una copertura assicurativa. Se i ragazzi e gli educatori che partecipano al progetto non sono soci la quota è di 6 € al giorno, se sono soci pagano 3€ al giorno (per i soci il CAI Centrale interviene con il 50% della quota). Sono assicurazioni giornaliere, ad uscita.

Un consiglio pratico ad una sezione che desidera approcciarsi alle attività di montagnaterapia per la prima volta; cosa diresti loro?

1. Perché vogliono svolgere tali attività? Qual è il senso della scelta?

2. Di formarsi e informarsi (per chi già non lo fosse)

3. Di progettare con puntigliosità il programma e in rete con il committente (servizi…)

4. Di essere consapevoli che il luogo in cui effettuare uscite e altro è l’ambiente alpino

5. Che la montagna deve essere tutelata e rispettata, quindi frequentata come ospiti e non da padroni. E questo vale per tutti

6. La montagnaterapia è anche cura della montagna. La montagnaterapia è dialogo e rispetto reciproco.

Salire n° 21 Giugno 2019 , trimestrale CAI Regione Lombardia

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La montagna non cura! Educa.

Per una “Pedagogia della montagna” … le riflessioni continuano. Di seguito riportiamo il contributo di Gianni Carrino (istruttore sezionale alpiteam)

La montagna non cura, educa! Per una Pedagogia della Montagna.

Così come nell’antica Grecia i maestri avevano la funzione trasmissiva verso gli allievi, anche la montagna assolve questa funzione. Allo stesso tempo la montagna non cura, dove il “non” sta per negazione, ed i “no” aiutano a crescere. Nel rapporto “maestro” (la montagna) ed allievo (i frequentatori) avviene l’atto di educare, l’ex – ducere, ovvero “tirar fuori”.

La montagna educa e i frequentatori prestano attenzione ad essa, sono premurosi, se ne prendono cura. Curare l’ambiente, in generale, e quindi anche la montagna, è un atto che trascende noi stessi, un atto di generosità verso ogni essere. Il prendersi cura di qualcosa e/o di qualcuno è altresì un agire educativo. Un modo per abbandonare l’”io” e il “mio” per coltivare il “noi” e il “nostro”.

La montagna mi ha insegnato a non barare, ad essere onesto con me stesso e con quello che facevo” così scriveva Walter Bonatti (alpinista, scrittore ed esploratore) in Montagne di una vita. È probabile che Bonatti avesse già in mente la “pedagogia della montagna” o semplicemente ha vissuto l’andare in montagna come “mezzo per far crescere l’uomo che è in noi” (W. Bonatti, Una vita così).

La montagna è un ambiente particolare che parla attraverso l’enormità di silenzio che la circonda. Il silenzio impone i suoi ritmi che non sono i nostri usuali, così come il camminare in montagna ha allo stesso modo dei ritmi e delle soste. Il silenzio ci richiama l’occasione di fermarsi, di riflettere, di entrare in contatto con noi stessi e con alcune parti di noi sopite dalla velocità. La montagna parla di lentezze e di ritmi rallentati. La montagna esprime purezza, è un terreno spesso incontaminato, vergine, è ricca di natura che cresce libera e selvaggia o che resta immutata, come le rocce. Molti luoghi che poi raggiungiamo parlano della bellezza: grandiose visioni, improvvisi incontri, orizzonti infiniti. La montagna parla della nostra capacità di ascoltare, di sentire e di provare vissuti e sensazioni (Un contesto pedagogico, Fabiano Gorla).

In educazione un’attenta scelta del contesto in cui andiamo ad operare molto importante, detto con le parole del filosofo dell’educazione e pedagogista Riccardo Massa: “il contatto con l’elemento naturale non si limita ad essere un ingrediente, seppur irrinunciabile; è al contrario il riferimento nodale, il nucleo dal quale traggono spunto e sul quale si innestano tutte le attività”.

G.C.

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Pedagogia della montagna

Pedagogia della montagna, uno scritto del direttore dei corsi Beppe Guzzeloni.

  • Drogarsi consiste nell’assumere sostanze che alterano la coscienza e il corpo è la via attraverso il quale il soggetto accede ad una sensazione di forza, di estraneazione, di assolutezza e di totalità.
  • Drogarsi significa acquisire “un’ identità” con stili di vita, modi di essere e di relazionarsi condizionati dall’abuso.
  • Il lavoro educativo si basa sulla relazione e prospetta il passaggio dalla tossicomania ad un sintomo personale. Tale passaggio ne prevede un altro, complementare e non semplice nella sua attuazione. Il passaggio dal corpo alla parola.
  • Il tossicodipendente porta con sé la difficoltà a rappresentarsi con la parola. E solamente se coglie nella parola, propria e dell’altro, una possibile alternativa alla droga che quell’identità che si è costruita, può essere messa in discussione.
  • Il percorso di cura e di apprendimento consiste nel vivere l’esperienza, della soggettività che si “tuffa” nell’oggettività della realtà e da questa trasformata. Consiste, inoltre, nell’accompagnare il tossicodipendente sulla strada di una rappresentazione di sé non più frutto della costruzione sociale (stigma), ma della consapevolezza che “ho dei problemi”.
  • Questo è possibile solo se vi è rielaborazione del ricordo e dell’agito. Spesso il ricordo viene rimosso, ma viene agito (sintomo). La tossicodipendenza è l’agito del rimosso, il sintomo di una sofferenza.

 

E l’andare in  Montagna?

 E’ lo ( o uno degli spazi) spazio e luogo (ambiente naturale ed umano) in cui il corpo può viversi e sperimentarsi. Un luogo particolare dove vivere l’opportunità di darsi un tempo per sé, con gli altri o da solo, in cui poter prendere contatto con se stessi. E’ l’opportunità di cominciare a “scoprirsi” attraverso la conoscenza di un ambiente naturale ed umano, mediante azioni, esperienze ( cammino, arrampicata…) che, se accompagnati nell’elaborazione del vissuto, aiutano ad aprirsi a se stessi e alla propria rappresentazione, “del chi sono io”. L’andare in montagna è uno stato mentale, una dimensione esistenziale, luogo delle piccole e grandi domande, specchio della propria coscienza. L’aspetto pedagogico, però, non è solamente fare delle attività in montagna, magari in modo consumistico, ma è quello di aiutare a vivere la montagna come luogo da rispettare, conoscere e difendere. La montagna è il luogo in cui natura e cultura, uomo e paesaggio, convivono nella ricerca del proprio equilibrio. Non vado in montagna per rischiare, ma imparo ad affrontare e gestire il rischio poiché è insito dell’ambiente.

 

Per pedagogia della montagna si intende la costruzione intenzionale di un setting, di un dispositivo emotivo, formativo ed educativo che ha come obiettivo la cura di sé, che investe  la vita interiore del soggetto e ne promuove la crescita personale. Tale processo si svolge, cresce e matura nel contesto alpino come luogo in cui natura e cultura, uomo e paesaggio, convivono nella ricerca del proprio equilibrio. Ciò può avvenire solo se “si fa esistere” la montagna non solo come spazio naturale (geologico, botanico e zoologico) ma dalle invenzioni estetiche, dalle metafore e dalle simbologie umane. La montagna come luogo di espressione educativa intesa come possibilità di elevazione oltre che fisica (rappresentazione corrispondente ai propri bisogni) soprattutto spirituale. E’ nel rapporto, nella relazione, nell’apertura consapevole e responsabile tra soggetto e ambiente alpino che possono crearsi  le opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali. E’ un processo che mi porta a “sentirmi parte” dell’ambiente alpino. ”Sentire e avere la montagna dentro” è un lungo cammino fatto di motivazione,  esperienze e conoscenza: trovare il senso di camminarla, arrampicarla, guardarla e osservarla comunque ( imparare un territorio). E’ il significato di andare in montagna, al di là della mete, delle motivazioni. Basta andarci. Toccare un appiglio, allacciarsi i ramponi, osservare degli stambecchi o intuire i movimenti di una marmotta, alzarsi all’alba, avere paura di attraversare un crepaccio, godere del vento….Provare l’impotenza davanti ad una montagna e alla sua sacralità è una sensazione di bellezza e stupore, di elevazione , di paura e di interrogativi.  La montagna stimola l’istinto: i sensi sono cardini per la ragione, la conoscenza e la memoria. Il camminare, l’alpinismo, l’arrampicare devono diventare azioni consapevoli di conoscenza di sé e dell’ambiente in cui si svolgono tali attività. La conoscenza di sé (limiti, scoperta di emozioni, espressione del corpo, scoperta di possibilità proprie….), l’apprendimento di una tecnica, l’esperienza della frequentazione della montagna  diventano luoghi di cura nella misura in cui “ mi occupo” anche di tutelare lo spazio che mi offre l’opportunità di cambiamento sia dal punto di vista della salute che di crescita umana e sociale. La cura di sé è imprescindibile dalla cura dell’ambiente alpino. La valenza pedagogica nel promuovere una relazione responsabile tra soggetto e ambiente alpino, offre la possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale e ad una maggior consapevolezza che “la patologia” non annulla il poter esprimere la propria “cittadinanza”.

 

Alcuni obiettivi educativi

Processo di apprendimento e miglioramento del funzionamento cognitivo

Migliorare le capacità di socializzare

Attenzione all’altro

Superare lo stigma

Dare senso alla fatica

Capacità di adattamento

Acquisire e migliorare competenze

Dare senso alla rinuncia, accettare” Il no”

Dare senso al rischio e al coraggio

Passare dall’agire al pensare

Accettazione di sé

Controllo dell’ansia e dell’impulsività

Autonomia e interdipendenza

Coerenza e continuità

Scegliere e valutare

Saper attendere e dare senso al tempo

 

In sintesi

L’andare in montagna ( nelle sue varie espressioni) è una scelta personale e ha una valenza pedagogica (paradigma) perché:

  • È opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali ( offuscate dall’abuso)
  • E’ opportunità di tradurre l’agire in parola ( vivo e dico ciò che sento, penso..)
  • Interazione con un ambiente particolare ( conoscenza)
  • Opportunità “politica” di partecipazione ( rispetto ambiente e impegno per la sua salvaguardia)
  • Acquisizione di una propria “visione” del mondo

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Passaggio Chiave: presentazione programma 2019

Alla scoperta della montagna per scoprire se stessi”: il gruppo Passaggio Chiave presenta il suo programma di uscite nell’ambito della montagnaterapia

Aiutare le persone a scoprire nuovi orizzonti e costruire progetti di vita.

Lunedì 25 febbraio dalle 17 alle 20, presso la sezione CAI di Bovisio Masciago (MB), il gruppo Passaggio Chiave presenterà ufficialmente al pubblico il proprio programma di uscite in montagna che avranno luogo principalmente in Lombardia “sconfinando” in qualche occasione anche in Piemonte e in Liguria.

Il gruppo Passaggio Chiave è una rete per la montagnaterapia che utilizza l’escursionismo e le scalate come strumento pedagogico nel percorso terapeutico di persone con problemi di dipendenza. Tra gli enti che vi fanno parte, oltre ad Alpiteam (scuola di alpinismo lombarda), figurano Arca di Como, Dianova Onlus, ATS Brianza, U.O. Dipendenze ASST Monza, Comunità Il Molino, Comunità Il Progetto, U.O. Alcologia e Nuove Dipendenze di Vimercate, U.O.C. Servizi Dipendenze ASST Rhodense, U.O. ASST Santi Paolo e Carlo, U.O.C. Rete Dipendenze ASST Lecco e Cooperativa Sociale Solaris.

Nel corso della serata dal titolo “Alla scoperta della montagna per scoprire se stessi”, un operatore del gruppo Passaggio Chiave presenterà le attività e i servizi della rete, mentre un utente racconterà in prima persona l’esperienza vissuta in una delle uscite degli anni passati. È inoltre previsto un rinfresco per tutti i presenti.

Il programma 2019 è stato strutturato alternando uscite semplici e un po’ più impegnative, proponendo in alcuni casi un “doppio binario”, ovvero un punto di arrivo intermedio raggiungibile con maggior facilità rispetto all’obiettivo “finale”, in modo da poter consentire ad un maggior numero di persone la partecipazione, dividendo il gruppo che si riunirebbe poi al termine dell’escursione. Saranno inoltre a disposizione diverse strutture di arrampicata tra cui la palestra del CAI di Bovisio Masciago, la parete di arrampicata della Comunità Dianova di Garbagnate Milanese e la Sala boulder della Comunità Il Molino.

Alla serata di presentazione sono stati invitati il Presidente Generale del CAI Vincenzo Torti, il Presidente Regionale del CAI Renato Aggio, il Presidente della Sezione CAI di Bovisio Masciago Gianpaolo Monti, i Direttore Generale delle ATS e ASST partecipanti ed un rappresentante degli enti che gestiscono i servizi residenziali per le dipendenze.

L’evento, per concludere, sarà senz’altro un’importante occasione per creare sinergie sul territorio e dare nuove prospettive a tutti quegli enti che hanno in comune la montagna come scenario educativo dove vivere un’esperienza di cura e riabilitazione, proponendo un concetto diverso di inclusione in cui ogni abilità dei singoli concorre al risultato finale del gruppo.

Per informazioni: Massimo Dorini, 335 325692, mdorini@asst-rhodense.it

volantino: invito passaggio chiave

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