Ciao BAFFO

Il nostro amico Baffo, ci ha lasciato il 5 di questo ottobre, a 71 anni, legati stretti per non lasciarseli scappare. Imbragato alla vita. Se ne è andato senza più fiato, tradito da una malattia impietosa, giunta sul suo corpo come un colpo di vento improvviso, mentre con piede fermo saliva la cresta verso la cima del suo destino.
Se ne è andato lottando, non “sazio di anni” come dice la Bibbia, con accanto sua moglie Milena, suo figlio Cesare con Fabiana e parenti e amici più fedeli, lasciando dietro di sé pezzi caldi di vita non vissuta, rimpianti, nostalgie. La morte è sempre spreco.
Di lui ci ricordiamo la disponibilità, la sua fedeltà, il suo costantemente “esserci” anche nell’assenza.
In questi giorni tristi, in questa atmosfera dolorante di amici, di solitudini, di volti, di esistenze, di lacrime sommesse il suo nome diviene momento unificante e il ricordo di lui si trasfigura e diventa di nuovo incontro. Un incontro, una memoria, forse una nostalgia, di certo un vento che asciuga la fronte, una mano che senti posata sulla spalla, un sospiro di sollievo, un sorriso dimenticato.
Nulla di quanto noi fortemente sognassimo, nulla di quanto noi testardamente sperassimo. E piangiamo straziati, mutilati, tentando, su tibie traballanti, di fuggire da questo nostro dolore. Invano e non ora.
L’amico Enrico si è inabissato in questo tramonto dell’anno. Piangiamo, ma il nostro cuore sia in pace, perché con il suo ultimo saluto ci ha dato la vita, il senso inafferrabile della vita e il non temere l’univocità della morte come uno spegnersi di stelle. Ci aspetta un arduo cammino; i nostri passi ora sono titubanti, come di orfani, come marinai nella nebbia, come alpinisti in cerca dell’appiglio. Sentiamo il peso dell’eredità, una eredità non di sangue, non un consolidamento di una entità solida: ciò che ereditiamo è una testimonianza. Proprio ora che ne sentiamo la mancanza.
E in noi, in cammino fin dall’alba di noi stessi,
arranca il nostro desiderio
e per valli, creste e cime,
ci inoltriamo nel nostro destino.
E mentre ci parla il colore del tramonto

e odiamo una musica lontana
innalzarsi come preghiera,
ci accompagna,
sotto lo sguardo severo di spigoli
e pilastri di granito,
il pensiero di te, amico Baffo.
Solo così il cammino si fa più dolce,
il passo più costante,
l’orizzonte più vicino,
il desiderio più vivo.
Così tentiamo la nostra vita
In un lungo e forte abbraccio
A te, al Lele, ad Antonio e Massimone.

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Mi fermo qui…e vado oltre (2)

di Beppe Guzzeloni

Giorni fa, Matteo Bertolotti, mi chiese se avevo voglia di scrivere un articolo per il nuovo numero de “lo Zaino” su alpinismo e disagio sociale. Argomento difficile e complesso, almeno per me. Nonostante una certa mia esperienza sia professionale che nell’organizzazione di corsi di alpinismo per persone che il disagio sociale lo vivono sulla propria pelle, vite rinviate. Una richiesta che mi ha lasciato comunque perplesso. Avevo deciso di non scrivere più nulla sulla cosiddetta montagnaterapia, termine da me poco usato, in quanto la mia riflessione aveva raggiunto una sorta di saturazione, di un “troppo pieno”.  Sentivo il bisogno di fermarmi e di chiarirmi le idee, ma allo stesso tempo emergeva in me il desiderio di andare oltre. Volevo trovare la strada che mi portasse a immaginare e realizzare progetti in cui l’alpinismo, e non il semplice accompagnamento escursionistico in montagna, diventasse strumento e opportunità di cambiamento per quelle persone che attraversano quotidianamente fragilità e vulnerabilità sociali, psico-fisiche ed esistenziali. Ed ecco che la “chiamata” di Willy mi spiazza, cerca di rimettermi in gioco solleticandomi pensieri diversi. Seppur ancora confusi.

Nelle ultime mie riflessioni apparse sullo Zaino riguardanti la pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano per descrivere ciò che di più profondo è dentro di noi, quel senso musicale e vitale che ci sollecita ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura e di introspezione. Da qui la pedagogia della montagna come affinità tra fragilità e bellezza, come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta e ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora” e sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà in cui agire con il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. E mi ponevo la domanda se la montagna è quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura e di mistero. E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Riflettevo, inoltre, come l’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza che presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. E’ così che intendo la pedagogia della montagna: una risorsa verso un viaggio verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta educativa per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esiste. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo nuovo. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una “salita” ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La pedagogia della montagna intesa come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica che agisce nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori, ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà; esperienza che tende alla “visibilità”, come la pensava I.Calvino,  e cioè non come pronunciamento dell’Io, come spinta egotica, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento, come esigenza di integrità. La pedagogia della montagna come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la pedagogia della montagna oggi è come riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la pedagogia della montagna diventa azzardo educativo, sguardo ulteriore dentro sé stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va vissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’alpinismo per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio delle montagne cerco la solitudine che è dentro di me e che mi aiuta a comunicare con l’altro. Alpinismo è opportunità di vivere l’avventura che spinge ad andare oltre sé stessi (scalando una parete) per andare verso l’altro per accoglierlo mentre lo incrociamo sulla strada della sua sofferenza superando frammentazioni, disimpegno e individualismo.

A questo punto, mi chiedo, quale rapporto ci può essere tra alpinismo e disagio sociale? Qual è il senso di tale domanda? Ci sono molte buone ragioni per le quali l’alpinismo (gli alpinismi?) dovrebbe chiedersi se la sua pratica possa contribuire a fornire una risposta esistenziale per coloro i quali attraversano le varie forme del disagio: sociale, esistenziale, psicologico, cognitivo, fisico… E questa è una domanda di fondo che l’alpinismo deve porsi e continuare a porsi. Vi sono state e vi sono risposte e testimonianze significative a tal riguardo. Esperienze e storie di alpinisti che hanno preso su di sé “la fatica dell’altro” (E.Hillary, G. Rossa, R. Videsott, B. Bonali , F. De Stefani, solo per citarne alcuni), ma vi sono altrettante “storie minori” che parlano di un alpinismo “solidale”. Deve avvenire una conversione nel mondo dell’alpinismo e ciò è possibile se avviene una crisi d’identità, solo se esso viene travolto da uno sguardo altro, una presenza, quasi nascosta ai nostri occhi, che interpella la nostra libertà che noi diamo per scontata e che cerchiamo di conservare a tutti i costi attraverso le nostre scalate. Ma l’esistenza reale di questo sguardo altro, disagiato e disagiante, ci rivela l’inconsistenza di tale libertà. Paradossalmente, l’azione alpinistica non teme il nuovo, lo sconosciuto di una parete, anzi l’alpinismo è alpinismo di ricerca di un nuovo equilibrio tra vecchio e nuovo, ma si arretra volgendo altrove il proprio orizzonte di fronte ad una mano tesa che arriva dal mondo sofferente come uno tsunami improvviso e sconvolgente. Eppure, tale evento vissuto come rottura di continuità dentro di sé e fra sé e il mondo, potrebbe essere il punto di arrivo di un lungo processo maturativo che ha attraversato e attraversa tuttora le varie fasi della storia dell’alpinismo, potendo così diventare più consapevoli sperimentando, come inizio della conversione, il buio e la cecità che ci imprigionano.

Quale alpinismo e quale passione per la montagna possono essere un’opportunità di risposta e testimonianza per il mondo del disagio? Non certo intesi come una relazione esclusiva, assoluta tra il soggetto e l’oggetto, tra me e la montagna, dove l’Altro sociale è escluso. Una relazione in cui l’oggetto diventa indispensabile, esigenza indifferibile, un qualcosa che non può venir meno, un qualcosa che non può mancare, dove il rischio potrebbe diventare condotta ordalica che si spinge fino alla sfida nichilista.

La mia esperienza, la mia scommessa e la mia proposta, non si fermano al semplice, seppur importante e significativo, accompagnare in montagna nel fare belle escursioni. Vorrei andare oltre, vorrei parlare e praticare l’alpinismo come opportunità di recupero di potenzialità, risorse e qualità, proprie dell’individuo, e da lui non più riconoscibili e utilizzabili prontamente, a causa delle limitazioni esistenziali derivate da deprivazioni relazionali, povertà economica e educativa. La montagna in quanto spazio naturale ricco di suggestioni metaforiche e simboliche, può diventare uno strumento di ricomposizione di sé; e l’alpinismo, in quanto attività umana, diventa linguaggio, assume su di sé un discorso e un modo di essere. Seguire un percorso di verticalità o raggiungere una cima per una cresta di misto o una nord, significa provare uno stato di eccitazione, di attività espansiva e di contatto con sè stessi che aiutano a comprendere “che ce la si può fare” ad inoltrarsi in cammini evolutivi. Inoltre significa raggiungere uno stato di maggior equilibrio psichico e di contenimento emotivo, di libertà espressiva. Un alpinismo ben cosciente di essere un’attività dagli elevati contenuti di imponderabilità, pur esprimendosi in una società dove incognite e rischi tendono ad essere ridotti al minimo. Un alpinismo di scoperta dentro di sé, una sorta di esplorazione verticale. Il passaggio dal fare al pensare è fondamentale e si intreccia con il fare con e il pensare con il contesto relazionale (istruttori ed educatori) attraverso le funzioni di accompagnamento, con i processi di ricostruzione e di ri-apprendimento, di riconoscimento e di confronto tra Sé e la realtà esterna.

Dove il pensare significa riprendere a vedere, capire, misurare, prevedere, intuire, ricordare, elaborare e comunicare ciò che si apprende dall’esperienza. Consente una costruzione o ri-costruzione di una rete di rapporti sociali che possa essere progressivamente interiorizzata, fatta propria. La fatica e la bellezza; l’impegno e la determinazione; la rinuncia e la conquista; la paura e il coraggio; la notte e la pioggia; il sole e la bellezza dei panorami; le pareti e le creste; legarsi in cordata e la fiducia; l’attenzione all’altro e la responsabilità; l’accettazione del limite e la trasgressione. Dove il “passo dopo passo” significa cambiamento, spostamento e incontro. Queste sono esperienze vitali che prendono forma attraverso il linguaggio. L’alpinismo e il vivere lo spazio alpino esprimono un nesso tra cultura e natura, tra mente e corpo. Ci si mette in gioco in un certo ambiente e nelle relazioni, nelle cose da fare, nell’agire nel creare esperienze. E tutto ciò attraverso il linguaggio. Sono esperienze educative, dove il concreto, l’agito, il “vissuto” interagisce con il pensiero; cioè sul perché faccio, agisco, scelgo, sento, cosa dice per me. È il setting terapeutico: l’esperienza diventa riflessione, elaborazione, creazione di senso, possibilità di cambiamento.

Alpinismo è apprendere una tecnica: come ci si muove in sicurezza in montagna, come si procede su un ghiacciaio, come si arrampica su una parete di roccia. Come si prepara uno zaino, come si fanno i nodi, come ci si prepara ad una salita e la si programma. Legarsi in cordata, oltre che apprendimento di una tecnica, assume pregnanza metaforica: è da un lato responsabilità, stima di sé, fiducia; ma dall’altro è costrizione, legame, vincolo; ma è anche condivisione nel raggiungimento di un obiettivo. Alpinismo significa provare a “cambiare il mondo”.

Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel mondo, pur essendo del mondo. Staccare il corpo da terra è un modo per fuggire dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio. Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un motivo. L’alpinismo non è solo “salire delle montagne perché esistono” (Mallory), alpinismo è salirle perché mi parlano, mi attraggono, “hanno qualcosa da dirmi”., mi toccano dal di dentro, mi incutono timore nella loro saggezza.  Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.

Arrampicare, in alpinismo, è come avvolgersi in una preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. Arrampicare è uno svuotarsi di ruoli, compiti, doveri. Apparenze. Arrampicare è come lo sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni. Arrampicare è scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso dell’accoglienza.

Arrampicare è il movimento della nostra esistenza verso lo sguardo benevolo del cielo che ci protegge, l’intorno che ci avvolge, la verticale che ci seduce; qualche appiglio che chiama le dita, un appoggio per i piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. È un modo umano “per cambiare il mondo”

Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io sconosciuto che io sono. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire. Arrampicare è la nascita di un gesto che si intreccia a sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita; concentrazione emotiva e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. È gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera sé stessa. 

Arrampicare è dialogo con la vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà dove l’azione domina di nuovo, ha ripreso il sopravvento, e il sensibile ha ritrovato in noi il posto che gli spetta. Alpinismo è vertigine che cammina sull’opportunità e possibilità di cambiamento. E non si gioca impunemente con la vertigine (A. Lochmann,“Il bacio della vertigine”), così come con qualsiasi altra ebbrezza che possiamo imporci (alcol, sostanze stupefacenti, gioco d’azzardo, stati d’animo eccitati, impulsività…) per scuotere la stabilità della nostra percezione. Il rischio è quello di perdervisi.

Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta in tutti i suoi segreti. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio. Ma non solo. Ogni volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né di avere.

Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è memoria storica…a volte nostalgia. Arrampicare è la verità eretica che si manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e insufficienti. Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. 

Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione, contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico, tempo e spazio. Il vuoto non è la nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può essere raccontata. (E. Camanni).

 Alpinismo è perdersi e ritrovarsi. Poesia della scoperta di sé, possibilità di cambiamento nell’accoglimento dell’altro da me. La conversione dell’alpinismo, la nuova identità dell’alpinismo, secondo me, è il cammino della ricerca attiva di sé con la montagna vissuta come soggetto vivente e come partner in quel cammino verso l’espressione della sensibilità per l’umano con le sue fragilità e debolezze. Un alpinismo, incarnato storicamente, che si volge verso il volto dell’Altro come espressione di un’identità umana all’incrocio tra il visibile (reale) e l’invisibile (la sua essenza). Il volto dell’altro come fenomeno sociale, come l’estrema avanzata nel mondo, come prua del destino personale.

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Mi fermo qui … e vado oltre

“A te si giunge solo attraverso di te. Ti aspetto” (Pedro Solinas in “La Voce a te dovuta”)

di Beppe Guzzeloni

Nelle ultime (penultime?) riflessioni sulla montagnaterapia, da me intesa come pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui la pedagogia della montagna come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

L’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è stato un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza, ma presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. La montagnaterapia come sguardo pedagogico e come risorsa spirituale verso un cammino verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta terapeutica per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esite. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo rinnovato e sostenibile. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una salita ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La montagnaterapia, come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica agendo nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà. La montagnaterapia come “visibilità” intesa, non come pronunciamento dell’Io, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento. La montagnaterpia come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la montagnaterapia oggi è riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la montagnaterapia diventa azzardo pedagogico, sguardo ulteriore dentro se stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Io trovo il senso di camminarla, la montagna, arrampicarla, guardarla comunque. Non c’è altro che mi attira, a volte anche senza una meta, a volte senza raggiungere una meta prescelta, se non la motivazione di andare in montagna e basta. Ma andarci con il gusto di vivere l’impotenza davanti a lei e tale sentimento equivale a una bellezza smisurata. Forse anche questo è montagnaterapia. E dico questo perché la montagna di abitanti, alpinisti o viaggiatori (non turisti) o poeti ha un senso diverso con l’uomo. Bisognerebbe spiarla senza di noi, operazione impossibile se non attraverso un corridoio del tempo che ci porti al passato. L’uomo accumula ricchezza effimera, ne ha bisogno. Non può bastarsi. Ecco, la possibilità che tale ricchezza non resti effimera ma possa essere eredità per il futuro, è l’utopia cui deve tendere la poesia del verso pedagogico che si chiama montagnaterapia.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va cissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’andare in montagna per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio cerco la solitudine, che è dentro di me, e che mi aiuta alla comunicazione con l’altro. Forse, in montagna, vado oltre me stesso per andare verso l’altro, in cerca non di avventura ma piuttosto ricerca di armonia tra uomo e natura. E questo è montagnaterapia intesa come luogo di incontro tra montagna e persona umana.

E così concludo la mia riflessione sulla pedagogia della montagna. Pensieri e parole buttate lì, su uno schermo del computer. Con uno sforzo che si augura di essere poetico ed utopico e che mi ha fatto sognare e immaginare una trasformazione. Ne avevo bisogno. Pensieri che restano in me come opportunità di provare ad inoltrarmi in nuovi sentieri di senso che attivino scelte e comportamenti che trasgrediscano l’ovvio e del “si fa sempre così”. Utopia? Certo.

Mi fermo qui con i versi di Solinas, con una piccola modifica: A te si giunge solo attraverso di te: aspettami, montagna! E da tempo che sono partito…

E vado oltre restando fedele al mio fermarmi.

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La pedagogia della montagna tra bellezza e fragilità

di Beppe Guzzeloni

“Gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare” così scrive Hanna Arendt in “Vita Activa”. Questa frase mi ha accompagnato in questi giorni, prossimi al Natale, a riflettere su quell’esperienza particolare che sta seducendo il CAI con avvenimenti significativi e importanti, chiamata “montagnaterapia” e su alcune idee, buttate lì come mattoni, che ho iniziato ad avere in questi anni su ciò che chiamo “pedagogia della montagna”, come tentativi di immettermi faticosamente e, forse illusoriamente, in quel pensiero vorticoso di costruire un diverso paradigma, una nuova traccia che integri e vada oltre la definizione e l’espressione pratica di “montagnaterapia”. Un pensiero in equilibrio precario su creste affilate avvolte dalla nebbia del dubbio, una riflessione critica che ha scelto di affrontare passaggi impegnativi per cercare di mettere le fondamenta ad un’esperienza ancora all’inizio del proprio, incerto, futuro. Fortunatamente non esiste una risposta che possa soddisfare la domanda di senso che provo a pormi. Ciò non toglie che, per essere realmente tale, ogni inizio è un taglio che si apre, che scava un vuoto alle nostre spalle senza offrirci una chiara visione di ciò che ci aspetta. Questi miei pensieri sono negli anni della loro adolescenza, dove prima ancora che del rinnovamento, essi sono una metafora dell’incipit di ciò che mi frulla per la testa. Un inizio che non è mai quello che ci aspetteremmo, solare e armonico, ma è un’alba che appena s’intravvede che guardando dietro di sé non trova appigli cui attaccarsi e che avverte con una certa inquietudine i segnali di quell’incognita di vita che sente crescere dentro di sé. L’esperienza di questi anni ha visto la montagnaterapia in cerca di riconoscimento e visibilità da parte di operatori, pazienti e volontari, ma soprattutto da parte delle istituzioni sociali e sanitarie. E io credo che essa debba spingersi oltre, di forzare i confini della propria visibilità sociale per mantenersi in contatto con quel punto sorgivo del proprio essere e della propria scelta di esserci.

Ma qual è il punto sorgivo, la fonte da cui scaturisce un pensiero che man mano si è fatto prassi? Io non lo vedo, anche se invece così sembra ed appare, solo all’interno del discorso clinico e terapeutico, ma nasce, in me nasce, dal bisogno di poesia. Poesia che ci insegna a vedere il mondo con occhi diversi, che ci fa provare sensazioni, che unisce corpo e mente e che permette a ciascuno di noi di esprimersi nel proprio linguaggio. È senza dubbio difficile farsi un’idea di questa sorta di non-luogo per avvicinarci al quale noi, esseri razionali e pratici, dobbiamo ricorrere per dimostrarne l’esistenza. E qui intendo la poesia come un pensare ad un che di utopico, di un qualcosa che non si trova, ma c’è. Che si dilegua ma che pur esiste. Non è frutto della nostra immaginazione. Utopia come ritrovamento, come percorso di speranza e di scoperta individuale e sociale. E ciò può avvenire non attraverso i percorsi conosciuti, consolidati, tracciati che si rilevano sulla cartografia ufficiale, ma solo attraverso la marginalità, i sentieri nascosti, quasi irraggiungibili. La poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui l’utopia come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Stiamo vivendo un momento di svolta, nell’approccio alla montagna. Se negli ultimi due secoli, perlomeno, il modello di essere umano era costituito dal cittadino costruito dalla civiltà industrializzata, che andava in montagna o per contemplare la natura selvaggia, eventualmente studiandola o per conquistarla (assediarla?) fisicamente, per sfruttarne le risorse naturali depredandole, oggi il rapporto con la montagna diventa sempre più necessario per rigenerarsi (fuggire?) dall’epoca tecnologica e, soprattutto, per attingere uno stile di vita alternativo. Lo stile, la via che mostra la montagna è il limite e l’insieme di orizzontalità e verticalità come dimensioni essenziali, entrambe, per una maggior autenticità umana che “sa prendersi cura e avere cura”. Ecco, per me la “pedagogia della montagna” è il tentativo di iscrivere il proprio nome all’interno di questo discorso, a questo nuovo linguaggio che vuole esprimere e significare quell’etica del prendersi cura, come sollecita l’Enciclica “Laudato Si’” intesa non solo come valore di riferimento, ma come impegno personale e collettivo a rendere sperimentabile la riprogettazione e la qualità della vita. E la montagna insegna i limiti costitutivi dell’uomo, delle proprie debolezze, fragilità e marginalità, e non è solo via di fuga dalle civiltà omologanti, ma anche sperimentazione in cammino, esperienziale abitare una dimensione che dilata le potenzialità umane. La pedagogia della montagna è pensiero esperienziale suscitato dalla montagna stessa, la quale apre il cammino, che conduce a sé, a chi ne sappia ascoltare il silenzio, attendere il respiro, inoltrarsi, quasi intimoriti, nella realtà verticale. La montagna, come pedagogia, è soggetto, prima che oggetto di pensiero; soggetto significativo per la vita in genere che incarna in modo esemplare la dimensione autentica, profonda della vita a condizione che chi la avvicini sia consapevole della propria finitezza e ulteriorità della montagna; sia che la si abiti come montanari, sia che la si frequenti come alpinisti, in montagna si vive solo grazie alla proprie limitate forze, spesso marginali, eppure sufficienti al sopravvivere perché capaci e disponibili  di fare libera esperienza, per gradi, del personale limite, sempre lambito e mai superato.

La pedagogia della montagna è la possibilità di vivere la montagna per quella che realmente essa è; non idealizzata come negli spot pubblicitari di ambientazione alpina e sportiva in cui essa viene raffigurata secondo una perfezione ipostatica, assoluta, capace di rendere visivamente quel concetto di perfezione che in natura non esiste. È questa la montagna che il pubblico vuole vedersi proporre: idilliaca, mai sudata, mai piovosa o fradicia, frequentata da persone mai scomposte, in un tempo fittizio, impermeabili alle forze della natura: una montagna che crea benessere psicofisico come atto miracoloso e consumistico, che va oltre le nostre vulnerabilità. La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Io credo che le parole “che si dicono”, il linguaggio che viene usato, trasmettono risonanze emozionali che mentre vengono pronunciate si riflettono in chi ascolta, ancor più se la nostra relazione con l’altro è mossa da intenzionalità educativa o veicolata da un legame o da una relazione d’aiuto. Le parole possono infatti mitigare la sofferenza in chi fatica a vivere e a resistere alle proprie fragilità, parola che ricorre in relazione a molteplici condizioni e difficoltà. Fragilità vuol dire avere a che fare con la mancanza che alberga nell’uomo e che lo spinge, frequentemente, a difendersi attraverso il distacco, l’indifferenza, l’isolamento, vivendo le relazioni a “distanza di sicurezza” da ogni coinvolgimento, lontano da ogni empatia, dalla possibilità ad intravvedere esperienze “di futuro”. Fragilità è parola rinviante a dimensioni dell’umano che agiscono su vari piani. Pensiamo alla disabilità, alla malattia, all’esclusione sociale, alla devianza, ma anche all’aspirazione ad essere e “sentirsi inclusi e appartenenti” per coloro i quali, privi di una rete e di legami sociali, non possono vedersi riconosciuti e far valere la possibilità di attuare a pieno le proprie capacità o di avere l’opportunità di poter esprimere le personali risorse. In tutti i casi, la fragilità attiva un’istanza per il riconoscimento di sé e per la ricerca di uno spazio inclusivo, di condivisione e costruzione di relazioni tanto sul piano della vita personale, quanto su quello comunitario e in relazione ai contesti nei quali le fragilità diviene sfida e voce critica per la società.

Al di là delle modalità di aiuto e intervento, emerge l’urgenza di prestare attenzione a ciò che non è manifesto, alle dimensioni dell’implicito, del ciò che “ci sta dietro” che attraversano i diversi spazi educativi, nelle relazioni interpersonali. Ma non solo, anche in relazione all’ambiente alpino vissuto nelle sue diverse dimensioni, qualcosa di “invisibile” accade di coinvolgente: l’esperienza della bellezza. La montagna come estetica del paesaggio, naturale e antropologico, diviene il “setting”, quel possibile luogo di cura e del prendersi cura che aiuta a superare, nella sua accettazione, le proprie e altrui fragilità. Guardare alla montagna, vivere la montagna, sotto il segno della bellezza significa affermare, come ricorda E.M. Cioran, che è esattamente come dovrebbe essere in quanto nella bellezza tutto trova una ragione d’essere, il suo equilibrio, il suo senso profondo, il suo slancio poetico. La pedagogia della montagna come esperienza della bellezza, vissuta, conservata, arricchita da comportamenti funzionali, idonei alla sua salvaguardia. La bellezza della montagna (e della natura) dà respiro ad una visione del mondo in cui tutto si scioglie in armonie e splendori, dove le fragilità e le vulnerabilità umane non fanno che accrescerne il fascino. La bellezza della montagna non salverà né guarirà certo il mondo, ma avvicinerà a quel benessere personale e sociale coloro i quali si incammineranno nell’impegno costante nel salvaguardare e tutelare la sua anima che, come ogni ambiente naturale, può trasformarsi positivamente in idea di azione, in teoria di paesaggio, in luogo degli uomini e delle donne purché essi siano messi nelle condizioni di identificare e perseguire liberamente i propri desideri.

Se, come ricorda Papa Francesco nella sua “Laudato Si’”, teniamo conto che le persone sono creature di questo mondo, che hanno diritto a vivere felici e hanno una particolare dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale dell’attuale modello di sviluppo sulla loro vita. Ecco che allora, la pedagogia della montagna può divenire un’esortazione all’impegno, alla costruzione di reti solidali, di modi di intendere e frequentare la montagna che si ispirino a quella poesia dell’utopico inteso come edificazione del possibile, del “qui e ora” che si proietta in un “non ancora”. Ecco, quindi, che la pedagogia della montagna diviene spazio terapeutico, setting particolare e specifico attraverso cui avviare quel processo del prendersi cura di sé e dell’altro che si manifesta nell’aver cura della montagna come sintesi che sollecita a porre lo sguardo verso le meraviglie del mondo alpino come spinta coraggiosa del saper vedere le fragilità come capacità “di sentirsi dentro” e di riconoscere la propria e altrui unicità e meraviglia in relazione ad una vita che, anche  se sfilacciata, va percepita, riconosciuta, vissuta e raccontata abbracciandone l’interna bellezza che alimenta qualsiasi relazione d’aiuto. La pedagogia della montagna come pedagogia della bellezza e della fragilità in quanto frutto di una sottile, ma forte, sensibilità per l’umano e affascinazione per l’ambiente e del paesaggio alpino che concorrono ad alimentare l’attenzione alla persona, sollecitandola a prendersi cura e a imparare a riconoscere la stessa bellezza come cura. Pedagogia della montagna come significato di quella affinità tra fragilità e bellezza come possibilità e opportunità poetica di attingere al profondo di ognuno di noi per dare vita a qualcosa di bello e significativo.

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In ricordo di un amico

Il 29 maggio 1990, all’età di cinquant’anni, lasciava un segno profondo nella vita dei suoi familiari e dei suoi amici, Felice Damaggio, l’avvocato Damaggio.

Una morte prematura che ha strappato alla neonata Alpiteam, Scuola di alpinismo Lombarda del Club Alpino Italiano, nata ufficialmente nel 1986, l’intelligenza, la sensibilità e la passione per le montagne di una personalità di vasta cultura che, con altri amici, aveva partorito, anni prima, l’idea di concepire le scuole del CAI come rinnovato strumento tecnico-culturale aperto al territorio e alla società, rifuggendo qualsiasi forma di campanilismo sezionale e particolarismo referenziale.

Nato nel 1940, socio del CAI dal 1962, aveva via via prestato la propria disponibilità per numerosi incarichi sociali: un mandato in qualità di Presidente della sezione del CAI di Seregno e della sua scuola di alpinismo “Renzo Cabiati”; componente, come si chiamavano allora, del Comitato di Coordinamento delle Sezioni Lombarde; membro della Commissione Legale Centrale e convinto propugnatore e poi cofondatore e primo presidente di Alpiteam.

L’Avvocato Damaggio, così chiamato dagli amici, raccoglieva in sé l’entusiasmo propositivo, l’attaccamento al sodalizio e la capacità di lucida e costruttiva analisi, a volte dirompente, delle problematiche che incombevano nelle scuole del CAI di quegli anni.

Suo il contributo, fatto proprio dal Consiglio Centrale del CAI nel 1987, di unificare le commissioni scuole di alpinismo e scialpinismo e di focalizzare più adeguati ruoli di scuole, corsi e istruttori, delineando nuovi assetti organizzativi.

Felice, inoltre, possedeva una rara onestà mentale, a cui non rinunciava, di essere impopolare o contro corrente, per essere coerente e convinto assertore di disinteressati principi e obiettivi pensati con una visione e uno sguardo lungimiranti.

Alpiteam nasce dal cuore dell’avvocato Damaggio nonostante la sua malattia che non ha tolto fiato alla sua determinazione dimostrata nel superare le obiettive difficoltà che aveva incontrato all’interno del CAI e le incomprensioni che poi sono state sciolte con il riconoscimento ufficiale di Alpiteam.

Alpiteam è stato il suo sogno, il suo “salto in avanti”, la sua proposta che, affiancato da altri amici e istruttori, si concretizzata nel 1986 come Scuola di Alpinismo del Club Alpino Italiano.

Quel salto in avanti, quella forza dirompente che nutriva il suo docile e amabile carattere, lo portò, in sintonia con tutti gli istruttori di Alpiteam, alle prime esperienze di montagnaterapia con la Comunità Terapeutica Arca di Como. Tuttora quel progetto porta in sé il suo nome e di tutti coloro che vi hanno creduto. Passaggio Chiave ne è la sua eredità.

La storia di Felice Damaggio è la storia di un nuotatore controcorrente che prendeva forza dalla sua voglia di futuro. Certo aveva le sue inquietudini, le sue malinconie, ma non ha mai dismesso la sua responsabilità di essere socio del sodalizio, che non ha ceduto davanti alle difficoltà di “trovare la sua via” all’interno di una parete vasta come quella del Club Alpino Italiano.

L’avvocato Damaggio era legato ad una cordata molto affiatata e con la quale ha potuto osare forzare quella parete e intuire quel percorso il cui nome è Alpiteam.

A trent’anni dalla morte di Felice, tutti gli istruttori di Alpiteam, vecchi e nuovi, lo ricordano con affetto, riconoscenza e stima con la consapevolezza che le scuole di alpinismo del Club Alpino Italiano portano in sé la sua eredità e cioè che svolgono un’attività di rilevanza sociale, di indirizzo, di ricerca e proposta didattica, culturale ed educativa che abbia a cuore la frequentazione della montagna, la sua tutela e salvaguardia.

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Per una pedagogia della montagna

Proseguono i contributi per una Pedagogia della Montagna. Un altro interessante articolo di Beppe Guzzeloni (Istruttore regionale di alpinismo).

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere” così scrive nei suoi diari il poeta inglese William Blake (1757-1827)

Non so perché, leggendo questa frase, mi è subito venuto in mente la favola “Il Piccolo Principe” dello scrittore francese Saint-Exupery. Un testo poetico che, per un gran numero di persone, è divenuto il racconto chiave della loro vita.

Anche per me. Questo libro, nella mia adolescenza, è stato il rifugio nelle ore di solitudine, conforto nei momenti di delusione. Un compagno indispensabile per riprendere fiducia e rinnovare il cammino della speranza.

Ma soprattutto “Il Piccolo Principe” è stato un forte messaggio educativo in grado di ricostituire la fiducia nella fedeltà incondizionata dell’amore; promette e impersona un mondo dell’impegno e della responsabilità reciproca ed evidenzia un legame d’amore, un alto canto di amicizia, semplicità e bellezza.

Perché stupirsi se “Il Piccolo Principe” ha finito per diventare la figura di un’umanità ideale?

Il suo sguardo retrospettivo nel regno dell’innocenza infantile e, soprattutto, il suo sguardo rivolto alle stelle, che nelle notti insonni, ci parlano di un invisibile pianeta di una straordinaria rosa e del suo mistero, ci ridona la profondità del sognare e l’ampiezza del cuore che credevamo ormai perduti.

E possibile sperare. A patto che vi sia attenzione per la rosa, che si abbia cura di lei, che la si protegga, che si faccia il possibile per lei. Con scelte consapevoli, con costanza e con la passione per il futuro da costruire.

Mi viene ora spontaneo e naturale portare il discorso sulla montagna, sull’ambiente alpino e della sua frequentazione sostenibile; del suo rispetto e della sua tutela. E qui ancora riporto una frase di Saint Exupery: ” la montagna è uno specchio, una provocazione del sublime; essa esalta ciò che ciascuno porta in sé di più ardente…”.  

Come scrive F.Tomatis nel suo bellissimo libro “ La via della montagna”, la rivoluzione montana può accadere, spontaneamente, nella misura in cui la visione diventa verticale. Orizzonte e monte, verticalità e cammino, ascesi e ritorno, ascensione e ridiscesa nel mondo sono naturali complementarietà della rivoluzione montana. Una rivoluzione che esige un cammino, una salita trasformativi tra natura e cultura.

L’ambiente alpino è un bene comune. E lo è nel momento in cui ne viene riconosciuto il valore da parte di chi si interroga e decide su come partecipare alla sua conservazione e alla sua trasformazione. “Spazio di vita” così intende la Convenzione Europea.

Un ambiente non solo da guardare, attraversare, godere mediante attività escursionistiche o alpinistiche, intese anche come opportunità per raggiungere condizioni di benessere fisico e psichico. Sicuramente non un luogo da consumare e sfruttare.

Quello che è importante non è tanto la conquista della vetta, seppur ha il suo valore, ma è il tu per tu con la roccia, con la neve, con il ghiaccio che è insostituibile: toccare, vedere, gli odori, i colori. E’ un’esperienza indimenticabile, è come una danza, la danza dell’appartenenza dell’ambiente che vivo. La vita di montagna, con il suo isolamento, con la presenza continua di pericoli, incoraggia lo sviluppo di due tendenze opposte della personalità umana: da un lato rafforza l’individualismo, dall’altra il bisogno di collaborare con il gruppo e di essere comunità.

L’ambiente alpino non è quindi un passivo diritto di fruizione, ma richiede l’esercizio della responsabilità individuale e collettiva finalizzato alla sua salvaguardia.

 La cura del paesaggio e il diritto delle persone a beneficiarne, sono strettamente interdipendenti e richiedono azioni di solidarietà civile e di partecipazione responsabile.

Si tratta, quindi, di avere la possibilità di prendersi cura di sé con la consapevolezza che la tutela della montagna (ambiente, cultura, paesaggio, territori, tradizioni) sono la conditio sine qua non per salvaguardare anche il mio e altrui benessere.

L’ecologia umana è inseparabile dalla nozione di bene comune; un principio che svolge un ruolo importante nell’etica sociale. Il bene comune presuppone il rispetto della persona umana in quanto tale e la cura per la natura attraverso un cambiamento degli stili di vita che implicano la capacità di vivere insieme e in comunione con il creato. Il bene comune presuppone una cultura della cura, come ricorda Papa Francesco nell’enciclica “Laudato Si”.

Per pedagogia della montagna, quindi, intendo la costruzione intenzionale di un dispositivo emotivo, formativo ed educativo che ha come obiettivo la cura di sé e che investe la vita interiore del soggetto promuovendone la crescita personale. Pedagogia della montagna come conversione alla cultura della cura.

Esso è il risultato di un processo che si svolge, cresce e matura nel contesto alpino come luogo in cui natura e cultura, persona e paesaggio, territori e tradizioni convivono nella ricerca del proprio equilibrio.

E’ nel rapporto, nella relazione, nell’apertura consapevole e responsabile tra soggetto e ambiente alpino che possono crearsi le opportunità di recupero di potenzialità e risorse personali e di salvaguardia della montagna.

Il camminare, l’alpinismo, l’arrampicare devono diventare azioni consapevoli di conoscenza di sé e dell’ambiente in cui si svolgono tali attività. La conoscenza di sé (limiti, scoperta di emozioni, espressione del corpo, scoperta di possibilità proprie…), l’apprendimento di una tecnica, l’esperienza della frequentazione della montagna diventano luoghi di cura nella misura in cui “ mi occupo” anche di tutelare e salvaguardare lo spazio che mi offre l’opportunità di cambiamento sia dal punto di vista della salute che di crescita umana e sociale.

La valenza pedagogica nel promuovere una relazione responsabile tra soggetto e ambiente alpino, offre la possibilità di incrementare la partecipazione alla vita sociale e ad una maggior consapevolezza che “la patologia” non annulla il poter esprimere la propria “cittadinanza”.

Come suggerisce Salvatore Settis in un suo scritto, occorre pensare il paesaggio e l’ambiente alpino come “teatro della democrazia”, luogo di diritti e di doveri.

La pedagogia della montagna è la manifestazione di come si può intendere, ritornando al Piccolo Principe, “l’attenzione alla rosa” e di come apprendere il mistero dell’amicizia e della cura dell’Altro ( persona, ambiente, relazione…).

 Il prendersi cura consiste in un paziente, lento, progressivo processo di ‘conoscenza’. Conoscere per fare e per essere; conoscere per andare e andare sicuri; un conoscere per capire, per amare e tutelare il luogo che mi accoglie. La montagna include chi la rispetta, chi la difende e protegge. La montagna, nella sua severità e asprezza, è accogliente.

 Solo così cresce il desiderio di conoscere e sentire sempre di più, di proseguire oltre e di capire più profondamente il mistero dell’Altro (montagna).

La pedagogia della montagna è il passaggio “obbligato” che deve essere affrontato per fare in modo che le scelte e le azioni finalizzate alla cura di sé attraverso la frequentazione della montagna si intreccino, dialoghino, abbraccino la montagna stessa attraverso la consapevolezza, i comportamenti, le prese di posizione, anche pubbliche, per il suo rispetto, la sua tutela e salvaguardia.

“Le montagne sono una sorta di miracolo: suscitano i sentimenti più disparati, riempiono di idee, spingono ad imprese, incuriosiscono, incutono paure, dissetano necessità.” Scrive il giornalista Enrico Martinet.

La pedagogia della montagna è una proposta, una sollecitazione: un invito a viverla. Ma non come senso di sfida agli elementi, di una volontà di dominio, di potenza o di bisogno di consumo; ma solo di corrispondenza, di confronto, di dialogo, di rispetto.

La pedagogia della montagna è un approccio delicato e dedicato alla conoscenza dell’ambiente alpino. Imparare un territorio è viverlo e la sua memoria è il frutto dell’esperienza.

Pedagogia della montagna non è solo la sfida che consiste nell’affrontare il mondo delle terre alte, ma sta nel riconoscerlo. Pareti, cime, ghiacciai, nevai, fiori, piante, pascoli, alpeggi, sentieri e accenni di sentieri. E’ l’esperienza da vivere per “sentirsi parte” di ciò che osservo, tocco, su cui cammino, arrampico. E l’esperienza di ritrovare i propri sensi: il vento freddo di masse glaciali, l’irradiazione dei massi, l’odore forte di erbe, l’udire il silenzio che pervade i boschi, porre attenzione a dove metto i piedi, a prestare interesse per quell’alpeggio, quella baita, quel muretto a secco.

La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Ora, questa esperienza dovrebbe essere la manifestazione di un’ulteriore presa di coscienza, di una diversa visione, di nuove scelte e coerenze: bisogna allargare lo sguardo e creare un nuovo linguaggio.

“Se uomo e montagna s’incontrano, grandi cose possono accadere”. Credo che sia il momento di dover andare in direzione contraria all’appiattimento sull’esistente, sul “buon senso e dell’ovvietà” sfidando la gravità del qualunquismo con lo sguardo rivolto ad un futuro sostenibile per le Terre alte e avendo un sogno, una domanda. La pedagogia della montagna è lo sforzo, il perenne tentativo di creare un ponte tra sé e la società, per una pacifica esistenza delle persone, in un armonioso rapporto con l’ambiente e la natura alpina, innanzitutto coi propri simili, con ogni creatura, attraverso un costante equilibrio fra visibile ed invisibile, esperienza concreta e mistero.

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A te che mi cammini di fianco

A te che mi cammini di fianco, di Beppe Guzzeloni

Se un giorno, desto all’alba, mentre m’incammino nel silenzio del sentiero che mi accompagna tra spigoli e pilastri, mi sorride la pace in me, perché tu ci sei, questa è montagnaterapia.

Se ti amo nei fiori, nel canto degli uccelli, nel fischio delle marmotte, nella danza dei larici in sintonia col vento, nella cavalcata delle nuvole, nel freddo mattutino, mentre accarezzo la roccia o m’infilo i ramponi, questa è montagnaterapia

Se ti amo nella luce o nella notte e in tutto in quel che vivo, che faccio, che sono (almeno ci provo), se ti amo mentre arranco sul pendio di neve o m’intrattengo sulla cresta guardando l’orizzonte o ascoltando da che parte arriva il vento, questa è montagnaterapia.

Se un vento pazzo che s’irride di tutto, come l’infanzia, mi sospinge al pensiero di te rendendomi più certo nel mio cammino, più sicuro nei miei salti, amico dell’ansia e della paura, questa è montagnaterapia.

Se vivo il dolore con speranza, se accolgo la mia mancanza attraverso la tua parola, se le mie lacrime s’asciugano con le tue carezze, se arrampico alleggerito dal pensiero di te, questa e montagnaterapia.

Se il mio cuore s’appresta con ritmo cadenzato a sostenere la fatica gioiosa del vivere sospinto dalla tua voce e dal tuo sorriso, mentre lo sviluppo della cordata s’insinua fessure e diedri in armonia con la vertigine, questa è montagnaterapia.

Se un giorno, d’incanto, pronuncerò il nome di quel fiore o di quell’albero, se riconoscerò il tipo di roccia che mi sovrasta e il versante che mi osserva mentre porgo i miei passi sul sentiero, questa è montagnaterapia.

Se un giorno la montagna verrà rispettata e amata per quella che è, se non verrà oltraggiata da impianti di risalita, funivie, strade e costruzioni a fini di lucro. Se non si arrampicherà dove nidificano il falco pellegrino o il gallo cedrone grazie all’impegno di molti, questa è montagnaterapia.

Se un giorno malati e sani si daranno la mano, se le patologie saranno cittadinanza, se le differenze saranno ricchezza, questa è montagnaterapia.

Se un giorno ti dimenticherai di me, se tu un giorno dovessi vivere il tuo desiderio in un altrove, se un giorno le montagne riecheggeranno i nostri nomi nei miei ricordi, questa è montagnaterapia.

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