Un altro prezioso contributo di Beppe Guzzeloni
Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel
mondo, pur essendo del mondo. Alzare il corpo da terra è un modo per fuggire
dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio.
Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un
motivo.
Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una
richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge,
mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo
quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un
annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.
Arrampicare è come avvolgersi in una preghiera, senza
chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla
quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un
angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. E’ uno svuotarsi di ruoli, compiti,
doveri, apparenze. E’ come lo
sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova
svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni; è
scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso
dell’accoglienza.
Arrampicare è il movimento del cuore verso lo sguardo benevolo
del cielo che ti protegge, l’intorno che ti avvolge, la verticale che ti
seduce, qualche appiglio che si dona alle dita, un appoggio per i piedi cercato
con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini
del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. E’ la spinta dell’umano
verso l’Alto.
Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non
posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io che
sono senza volerlo, che a volte respingo e non conosco. Ma che m’inchioda a
quel me stesso da cui vorrei fuggire.
Perché di viaggio si tratta. La scalata ha la ritualità del
viaggio: l’idea di un desiderio, progetto, preparazione, materiale nello zaino,
la scelta condivisa di un compagno, saluti, partenza, azione, nostalgia e
ritorno.
Arrampicare è la nascita di un gesto, di un qualcosa di
proprio, sequenze di scelte che abbandoniamo e ritroviamo. Un intreccio di
sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita.
Arrampicare è
ritornare a muoversi a quattro zampe, è il selvaggio che portiamo in noi, è
parlare con il proprio corpo, spesso a noi sconosciuto. E’ pelle nuda che si
confonde con la naturalità della roccia. E’ usare ogni muscolo, concentrazione
emotive e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. E’ gioia che danza.
Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera se stessa; dialogo con la
vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come
fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà.
Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta
in tutti i suoi segreti. Basta guardarla con attenzione. La roccia si fa
accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la
sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa
linguaggio.
Arrampicare è muoversi in libertà all’interno di un viaggio
in cui le mani hanno trovato la via e i piedi la seguono. In cui corpo, cuore e
anima condividono l’itinerario animati dalla tensione, dall’utopia, dalla
speranza che ciò che ci spinge a scalare, le motivazioni profonde che ci
sospingono verso l’alto, diventino realtà. Ogni volta che si sceglie di
arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova
esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né
di avere.
Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di
noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è
memoria storica…a volte nostalgia. E’ la verità eretica che si manifesta a noi
come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza
quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e
insufficienti.
Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo
volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che
si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. A volte, invece,
nasconde invidia. Arrampicare è
perdersi e ritrovarsi. Utopia della scoperta ma anche nostalgia del ritorno.
Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza
introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione,
contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico,
tempo e spazio. Il vuoto non è la
nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano
qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si
è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può
essere raccontata.
Approfondisci