In ricordo di un amico

Il 29 maggio 1990, all’età di cinquant’anni, lasciava un segno profondo nella vita dei suoi familiari e dei suoi amici, Felice Damaggio, l’avvocato Damaggio.

Una morte prematura che ha strappato alla neonata Alpiteam, Scuola di alpinismo Lombarda del Club Alpino Italiano, nata ufficialmente nel 1986, l’intelligenza, la sensibilità e la passione per le montagne di una personalità di vasta cultura che, con altri amici, aveva partorito, anni prima, l’idea di concepire le scuole del CAI come rinnovato strumento tecnico-culturale aperto al territorio e alla società, rifuggendo qualsiasi forma di campanilismo sezionale e particolarismo referenziale.

Nato nel 1940, socio del CAI dal 1962, aveva via via prestato la propria disponibilità per numerosi incarichi sociali: un mandato in qualità di Presidente della sezione del CAI di Seregno e della sua scuola di alpinismo “Renzo Cabiati”; componente, come si chiamavano allora, del Comitato di Coordinamento delle Sezioni Lombarde; membro della Commissione Legale Centrale e convinto propugnatore e poi cofondatore e primo presidente di Alpiteam.

L’Avvocato Damaggio, così chiamato dagli amici, raccoglieva in sé l’entusiasmo propositivo, l’attaccamento al sodalizio e la capacità di lucida e costruttiva analisi, a volte dirompente, delle problematiche che incombevano nelle scuole del CAI di quegli anni.

Suo il contributo, fatto proprio dal Consiglio Centrale del CAI nel 1987, di unificare le commissioni scuole di alpinismo e scialpinismo e di focalizzare più adeguati ruoli di scuole, corsi e istruttori, delineando nuovi assetti organizzativi.

Felice, inoltre, possedeva una rara onestà mentale, a cui non rinunciava, di essere impopolare o contro corrente, per essere coerente e convinto assertore di disinteressati principi e obiettivi pensati con una visione e uno sguardo lungimiranti.

Alpiteam nasce dal cuore dell’avvocato Damaggio nonostante la sua malattia che non ha tolto fiato alla sua determinazione dimostrata nel superare le obiettive difficoltà che aveva incontrato all’interno del CAI e le incomprensioni che poi sono state sciolte con il riconoscimento ufficiale di Alpiteam.

Alpiteam è stato il suo sogno, il suo “salto in avanti”, la sua proposta che, affiancato da altri amici e istruttori, si concretizzata nel 1986 come Scuola di Alpinismo del Club Alpino Italiano.

Quel salto in avanti, quella forza dirompente che nutriva il suo docile e amabile carattere, lo portò, in sintonia con tutti gli istruttori di Alpiteam, alle prime esperienze di montagnaterapia con la Comunità Terapeutica Arca di Como. Tuttora quel progetto porta in sé il suo nome e di tutti coloro che vi hanno creduto. Passaggio Chiave ne è la sua eredità.

La storia di Felice Damaggio è la storia di un nuotatore controcorrente che prendeva forza dalla sua voglia di futuro. Certo aveva le sue inquietudini, le sue malinconie, ma non ha mai dismesso la sua responsabilità di essere socio del sodalizio, che non ha ceduto davanti alle difficoltà di “trovare la sua via” all’interno di una parete vasta come quella del Club Alpino Italiano.

L’avvocato Damaggio era legato ad una cordata molto affiatata e con la quale ha potuto osare forzare quella parete e intuire quel percorso il cui nome è Alpiteam.

A trent’anni dalla morte di Felice, tutti gli istruttori di Alpiteam, vecchi e nuovi, lo ricordano con affetto, riconoscenza e stima con la consapevolezza che le scuole di alpinismo del Club Alpino Italiano portano in sé la sua eredità e cioè che svolgono un’attività di rilevanza sociale, di indirizzo, di ricerca e proposta didattica, culturale ed educativa che abbia a cuore la frequentazione della montagna, la sua tutela e salvaguardia.

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Viaggio verticale

Un altro prezioso contributo di Beppe Guzzeloni

Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel mondo, pur essendo del mondo. Alzare il corpo da terra è un modo per fuggire dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio. Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un motivo.

Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.

Arrampicare è come avvolgersi in una preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. E’ uno svuotarsi di ruoli, compiti, doveri, apparenze.  E’ come lo sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni; è scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso dell’accoglienza.

Arrampicare è il movimento del cuore verso lo sguardo benevolo del cielo che ti protegge, l’intorno che ti avvolge, la verticale che ti seduce, qualche appiglio che si dona alle dita, un appoggio per i piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. E’ la spinta dell’umano verso l’Alto.

Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io che sono senza volerlo, che a volte respingo e non conosco. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire.

Perché di viaggio si tratta. La scalata ha la ritualità del viaggio: l’idea di un desiderio, progetto, preparazione, materiale nello zaino, la scelta condivisa di un compagno, saluti, partenza, azione, nostalgia e ritorno.

Arrampicare è la nascita di un gesto, di un qualcosa di proprio, sequenze di scelte che abbandoniamo e ritroviamo. Un intreccio di sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita.

 Arrampicare è ritornare a muoversi a quattro zampe, è il selvaggio che portiamo in noi, è parlare con il proprio corpo, spesso a noi sconosciuto. E’ pelle nuda che si confonde con la naturalità della roccia. E’ usare ogni muscolo, concentrazione emotive e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. E’ gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera se stessa; dialogo con la vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà.

Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta in tutti i suoi segreti. Basta guardarla con attenzione. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio.

Arrampicare è muoversi in libertà all’interno di un viaggio in cui le mani hanno trovato la via e i piedi la seguono. In cui corpo, cuore e anima condividono l’itinerario animati dalla tensione, dall’utopia, dalla speranza che ciò che ci spinge a scalare, le motivazioni profonde che ci sospingono verso l’alto, diventino realtà. Ogni volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né di avere.

Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è memoria storica…a volte nostalgia. E’ la verità eretica che si manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e insufficienti.

Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. A volte, invece, nasconde invidia. Arrampicare è perdersi e ritrovarsi. Utopia della scoperta ma anche nostalgia del ritorno.

Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione, contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico, tempo e spazio. Il vuoto non è la nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può essere raccontata.

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E’ possibile cambiare? 2

di Beppe Guzzeloni

E’ spaventoso, ma al contempo affascinante, questo nostro mondo senza di noi. Gli animali si riappropriano dei loro spazi, le acque dei fiumi sono più pulite, lo smog sparisce dai cieli delle grandi città, le montagne abbracciano orizzonti lontani, il silenzio ode la propria voce e la natura respira grazie al ritorno della solitudine. E noi, seppur impauriti, cogliamo che c’è qualcosa di bello in tutto ciò. E vorremmo che continuasse. Dall’angoscia del rischio del contagio e dal timore di perdere la nostra libertà individuale e collettiva, è subentrata l’angoscia di perdere il mondo con le nostre abitudini e la possibilità di vivere insieme come prima. E quindi lo spaesamento dovuto alla difficoltà di rappresentarci come saremo e come vivremo.

Come scrive Padre Luciano Manicardi Priore della Comunità di Bose nel suo libro “Fragilità”, anche il crollo di un impero, come la fine di una relazione coniugale o il fallimento di una grande azienda possono apparire improvvisi, ma in verità sono preparati da una storia, più o meno lunga. Dove c’è imperfezione, c’è qualcosa che accade, un evento, un processo, un mutamento, una relazione. Anche quanto stiamo vivendo in questi mesi di emergenza epidemica che stravolge le nostre storie mettendo a dura prova la nostra economia, le nostre relazioni sociali, il nostro stile di vita, fors’anche il nostro stesso senso del vivere, è uno svelarsi di verità altrimenti nascoste, il “totalmente altro “. Il Covid 19 è figlio delle nostre aggressioni all’ambiente, della riduzione degli spazi biologici che inducono ogni forma vivente a sopravvivere dove e come può. L’uomo ha devastato il Giardino Terrestre mettendo le premesse per l’incontro con il perturbante: ciò che sembrava conosciuto e familiare si snatura, e ciò che conoscevamo, ciò a cui eravamo abituati, si svela in una nuova prospettiva. Che ci obbliga a fermarci, a riflettere, a ripensare su come ripartire. Il perturbante offre l’opportunità di cogliere una visione eterotopica (M. Foucault) del nostro mondo. Ciò che è stato, in gran parte non dovrà più essere.  L’esperienza della pandemia ci dice già che non torneremo alle condizioni di prima, non sarà un riprendere lo stile di vita precedente, ma sarà l’avvio di una sofferta trasformazione individuale e collettiva, personale e globale. Il Covid 19 è l’occasione di prendere coscienza di essere stati catapultati in uno spazio “altro”, in un “non luogo” diversi da quelli da noi conosciuti. La tragicità dell’emergenza endemica che ci attraversa diventi fonte di energie e visioni nuove. Sia un attraversamento del deserto, sia spoliazione di egoismi e individualismi, dove la libertà diventi costruzione di una convivenza solidale tra uomo e natura.

Mi manca moltissimo la montagna e la sua frequentazione, soprattutto attraverso l’alpinismo. Ho nostalgia della quota, dell’ambiente glaciale, dei pilastri di granito e degli spigoli dolomitici; così come sento il profondo bisogno di spazi aperti, di camminare su sentieri e cavalcare creste. Vorrei tanto che l’ambiente alpino rinasca con altre logiche economiche e culturali perché diventi realmente strumento per una vita migliore i cui valori si basino sulla coscienza civile, solidarietà, senso del bello, e che questi valori vadano trasmessi e conservati per le generazioni future. Credo che tutte queste cose siano racchiuse nel cuore della montagna e delle sue genti, che tutti quelli che la frequentano dovrebbero avvicinarsi ad essa con la voglia di rispettarla e che non si comportino da conquistatori e predatori, sconvolgendo habitat, tradizioni e storie di vita alpina.

Comprensibilmente l’attenzione, oggi, degli amanti della montagna, di noi istruttori, si concentra sul come e quando riprendere a effettuare salite, calpestare sentieri, legarsi in cordata, arrampicare e sentire “il proprio respiro” libero da costrizioni. Emerge il problema della frequentazione dei rifugi, del trasporto, del distanziamento sociale che tale emergenza ci ha imposto, dell’uso o meno delle mascherine, del programmare gite in piccoli gruppi, di come affrontare una sosta o effettuare una corda doppia cercando di rispettare le indicazioni per evitare possibili contagi.  Usare o meno del disinfettante dopo ogni manovra; fare attenzione a dove metto le mani; a sanificare attrezzatura e materiali vari dopo l’utilizzo…. Certo, questo è un vero problema che si deve affrontare e a cui cercare di dare risposte. E ciò influenzerà in modo considerevole il nostro modo di andare in montagna e il nostro modo di essere istruttori. Tutto questo concerne un cambiamento di mentalità, aumentando e affinando la nostra preparazione sia tecnica che culturale, consolidando il nostro senso di responsabilità. Ma il salto di qualità consiste nell’essere consapevoli che le Scuole di Alpinismo svolgono un’attività di rilevanza sociale, di indirizzo, di ricerca e di proposta culturale che abbia a cuore la frequentazione della montagna. Le Scuole di Alpinismo assumono su di sé una valenza educativa. Educare nel tempo delle problematicità non significa aumentare il senso di sicurezza, bensì far emergere a livello cosciente le resistenze che si oppongono al cambiare direzione nei confronti della montagna e di come viverla alla luce della sostenibilità e della sua salvaguardia; a decidere se veramente si vuole affrontare il difficile compito di incamminarci su sentieri nuovi che l’esperienza dell’emergenza sanitaria ci sta obbligando a percorrere.

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E’ possibile cambiare?

di Beppe Guzzeloni

Mentre scrivo, in una Pasquetta tiepida, di quest’anno bisestile, gli alberi si gonfiano, scoppiano le gemme; le prime foglie mostrano il loro verde tenero sui rami rugosi, i clivi si coprono di primule: grandi macchie colorate che chiazzano l’erba sotto le siepi, ai piedi degli alberi, negli avvallamenti del terreno. E le finestre restano aperte per assorbire il calore del sole e udire le rondini garrire; nelle corti il bucato sospeso alla fune dondola, gonfiandosi come una vela alla brezza di primavera. E fuori, per le strade, non sento voci e rumore d’auto; solo, in lontananza la sirena di un’autoambulanza e le ore ricordate dal campanile. L’aria è più pulita e il silenzio si fa più presente. Non ero abituato al silenzio cittadino, pensavo non esistesse.  Invece, l’arrivo di un virus invisibile ma tangibile, ha sconvolto la nostra esistenza. Uno tsunami improvviso, una valanga imprevedibile di enormi dimensioni ha ribaltato la nostra società con una crescita esponenziale di contagi, vittime, fratture familiari e relazionali. Un’impalcatura economica, sanitaria e sociale messa a dura prova. Storie personali e psicologie individuali rivoltate come un calzino. Uno stile di vita crollato come un castello di carta. Il contagio è diventato la misura di come la nostra società sia globalizzata, interconnessa, intricata. Il Covid 19 ha svelato ciò che sapevamo, ma non immaginavamo con quale potenza e velocità avrebbe avuto inizio la destrutturazione della nostra complessità, del mondo che abitiamo e delle sue logiche economiche, politiche e sociali. Una sorta di tabula rasa, di azzeramento, di smarrimento. Nei mesi precedenti avevo effettuato delle belle salite sulle montagne lombarde e svizzere, canali e creste innevate, in ottime condizioni. Avevo anche ripreso ad arrampicare su qualche falesia. Avevo progetti di salite, c’era da organizzare i corsi di alpinismo, incontri sociali al CAI, riunioni istruttori. Il mio lavoro di operatore sociale che mi impegna tutti i giorni della settimana. Insomma, la mia solita vita fatta di interessi, impegni, contatti. Sì, una vita piena che, in breve tempo, si è trovata catapultata all’interno di uno spazio vuoto a causa delle misure di contenimento e di distanziamento sociale.  Esperienza condivisa da molti.  Da una presenza e da una pienezza consolidate negli anni da abitudini, progetti, relazioni, fors’anche sogni, mi sono trovato in un salto nel buio che si rovescia nell’esperienza del vuoto, della mancanza, dell’imprevedibilità, nell’insicurezza e nella paura. In un girovagare, materiale e spirituale, in uno spazio tanto fisico quanto interiore in cui l’incontro con l’altro è ridotto al minimo. Ho cercato, così  di riempire la mia giornata “facendo”, di inventarmi cose da fare, leggere, sentire musica, videotelefonate, chiacchiere per ore, ginnastica casalinga. Tutto ciò per fuggire dal vuoto, invece che viverlo, di attraversarlo e di saper aspettare. Le montagne sanno aspettare, io sto imparando il coraggio di rinunciare ad un qualcosa cui tengo molto.  Ma l’attesa che vivo in questo periodo è diversa da quella precedente. Prima sapevo aspettare ciò che avevo progettato. Un’attesa di un qualcosa di certo e definito. Ora è diverso. Sto sperimentando un’attesa desiderante un qualcosa da costruire, da rivedere, riformulare, riprogettare. Ho iniziato a scoprire l’essenziale, a viverlo di persona, con tutta la fatica e le difficoltà che ciò comporta. E soprattutto a toccare con mano la solitudine, a fare i conti con l’ansia, a temere il sospetto e il mio stesso respiro: potrei essere contagioso. Una solitudine che mi interpella, che mi pone domande, che non esige risposte immediate. Mi sono accorto di essere entrato in un deserto e devo attraversarlo. Da solo, ma con il mondo intero. “Da soli non se ne esce”. Nel contagio epidemico se ne esce solo con un nuovo senso di “essere comunità”, nel nostro quartiere, paese, città, con uno sguardo rivolto al mondo: l’epidemia cambia se cambiamo noi, cambiando il nostro modo di essere nel mondo. Dobbiamo inventare un rinnovato e diverso “essere insieme”. Il noi deve prevalere sull’io. La stessa libertà individuale sarà tale solo se sarà solidale. Questo mondo ancora meraviglioso noi stiamo facendo del tutto per degradarlo e per perderlo. Il cambiamento climatico che aggredisce l’ambiente provocando deforestazioni, desertificazioni, il ritiro dei ghiacciai, l’estinzione accelerata di specie di animali, gli allevamenti intensivi che creano colture involontarie. Se poi aggiungiamo l’urbanizzazione di grandi territori, le megalopoli con milioni di abitanti, il quadro è completo. Ciò che stiamo vivendo in questo periodo è solo il sintomo di un disagio più profondo. ”Se il contagio è un sintomo, l’infezione è nell’ecologia”(Paolo Giordano).

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