di Beppe Guzzeloni
Giorni fa, Matteo Bertolotti, mi chiese se avevo voglia di
scrivere un articolo per il nuovo numero de “lo Zaino” su alpinismo e disagio
sociale. Argomento difficile e complesso, almeno per me. Nonostante una certa
mia esperienza sia professionale che nell’organizzazione di corsi di alpinismo
per persone che il disagio sociale lo vivono sulla propria pelle, vite
rinviate. Una richiesta che mi ha lasciato comunque perplesso. Avevo deciso di
non scrivere più nulla sulla cosiddetta montagnaterapia, termine da me poco
usato, in quanto la mia riflessione aveva raggiunto una sorta di saturazione,
di un “troppo pieno”. Sentivo il bisogno
di fermarmi e di chiarirmi le idee, ma allo stesso tempo emergeva in me il
desiderio di andare oltre. Volevo trovare la strada che mi portasse a
immaginare e realizzare progetti in cui l’alpinismo, e non il semplice
accompagnamento escursionistico in montagna, diventasse strumento e opportunità
di cambiamento per quelle persone che attraversano quotidianamente fragilità e
vulnerabilità sociali, psico-fisiche ed esistenziali. Ed ecco che la “chiamata”
di Willy mi spiazza, cerca di rimettermi in gioco solleticandomi pensieri
diversi. Seppur ancora confusi.
Nelle ultime mie riflessioni apparse sullo Zaino riguardanti
la pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per
recuperare le parole che ci mancano per descrivere ciò che di più profondo è
dentro di noi, quel senso musicale e vitale che ci sollecita ad un continuo
sforzo di pensiero, di scrittura e di introspezione. Da qui la pedagogia della
montagna come affinità tra fragilità e bellezza, come cammino utopico dove
l’utopia è concepita come scoperta e ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la
speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora” e
sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno
costante nella comprensione della realtà in cui agire con il coraggio di
assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. E mi ponevo la
domanda se la montagna è quel luogo che ci può offrire l’opportunità di
scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il
quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di
scopertura e di mistero. E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle
cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a
percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed
essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle
cose.
Riflettevo, inoltre, come l’utopia è un bisogno radicato
nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna
riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone.
Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è un altro nome per
definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza
che presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. E’
così che intendo la pedagogia della montagna: una risorsa verso un viaggio
verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come
proposta educativa per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del
prendersi cura.
E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso
Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non
c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esiste. Connotazione
visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di
cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria
condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo nuovo.
Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una
“salita” ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso
alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di
Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive
insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con
gli occhi della mente.
La pedagogia della montagna intesa come utopia contemporanea,
come ricerca di una vita autentica che agisce nella storia per aprire strade di
speranza, verso la costruzione di progetti non illusori, ma delineando
possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di
precarietà; esperienza che tende alla “visibilità”, come la pensava I.Calvino, e cioè non come pronunciamento dell’Io, come
spinta egotica, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento,
come esigenza di integrità. La pedagogia della montagna come proposta per
l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci
al continuo cammino, all’oltre. Pensare la pedagogia della montagna oggi è come
riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che
contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per
forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il
tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole
vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica
dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una
posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà
a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma
con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile
trasformazione di senso del vivere. Sì, la pedagogia della montagna diventa
azzardo educativo, sguardo ulteriore dentro sé stessi e verso il mondo, invito
a rompere gli schemi.
La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è
difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole
umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina,
meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene
al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene
ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e
ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati,
ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura
e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.
Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono
essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o
soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la
montagna va vissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’alpinismo
per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio
delle montagne cerco la solitudine che è dentro di me e che mi aiuta a comunicare
con l’altro. Alpinismo è opportunità di vivere l’avventura che spinge ad andare
oltre sé stessi (scalando una parete) per andare verso l’altro per accoglierlo
mentre lo incrociamo sulla strada della sua sofferenza superando
frammentazioni, disimpegno e individualismo.
A questo punto, mi chiedo, quale rapporto ci può essere tra
alpinismo e disagio sociale? Qual è il senso di tale domanda? Ci sono molte
buone ragioni per le quali l’alpinismo (gli alpinismi?) dovrebbe chiedersi se la
sua pratica possa contribuire a fornire una risposta esistenziale per coloro i
quali attraversano le varie forme del disagio: sociale, esistenziale,
psicologico, cognitivo, fisico… E questa è una domanda di fondo che l’alpinismo
deve porsi e continuare a porsi. Vi sono state e vi sono risposte e
testimonianze significative a tal riguardo. Esperienze e storie di alpinisti
che hanno preso su di sé “la fatica dell’altro” (E.Hillary, G. Rossa, R.
Videsott, B. Bonali , F. De Stefani, solo per citarne alcuni), ma vi sono
altrettante “storie minori” che parlano di un alpinismo “solidale”. Deve
avvenire una conversione nel mondo dell’alpinismo e ciò è possibile se avviene
una crisi d’identità, solo se esso viene travolto da uno sguardo altro, una
presenza, quasi nascosta ai nostri occhi, che interpella la nostra libertà che
noi diamo per scontata e che cerchiamo di conservare a tutti i costi attraverso
le nostre scalate. Ma l’esistenza reale di questo sguardo altro, disagiato e
disagiante, ci rivela l’inconsistenza di tale libertà. Paradossalmente,
l’azione alpinistica non teme il nuovo, lo sconosciuto di una parete, anzi
l’alpinismo è alpinismo di ricerca di un nuovo equilibrio tra vecchio e nuovo, ma
si arretra volgendo altrove il proprio orizzonte di fronte ad una mano tesa che
arriva dal mondo sofferente come uno tsunami improvviso e sconvolgente. Eppure,
tale evento vissuto come rottura di continuità dentro di sé e fra sé e il mondo,
potrebbe essere il punto di arrivo di un lungo processo maturativo che ha
attraversato e attraversa tuttora le varie fasi della storia dell’alpinismo,
potendo così diventare più consapevoli sperimentando, come inizio della
conversione, il buio e la cecità che ci imprigionano.
Quale alpinismo e quale passione per la montagna possono
essere un’opportunità di risposta e testimonianza per il mondo del disagio? Non
certo intesi come una relazione esclusiva, assoluta tra il soggetto e
l’oggetto, tra me e la montagna, dove l’Altro sociale è escluso. Una relazione
in cui l’oggetto diventa indispensabile, esigenza indifferibile, un qualcosa
che non può venir meno, un qualcosa che non può mancare, dove il rischio potrebbe diventare condotta ordalica che
si spinge fino alla sfida nichilista.
La mia esperienza, la mia scommessa e la mia proposta, non si
fermano al semplice, seppur importante e significativo, accompagnare in
montagna nel fare belle escursioni. Vorrei andare oltre, vorrei parlare e
praticare l’alpinismo come opportunità di recupero di potenzialità, risorse e
qualità, proprie dell’individuo, e da lui non più riconoscibili e utilizzabili
prontamente, a causa delle limitazioni esistenziali derivate da deprivazioni
relazionali, povertà economica e educativa. La montagna in quanto spazio
naturale ricco di suggestioni metaforiche e simboliche, può diventare uno
strumento di ricomposizione di sé; e l’alpinismo, in quanto attività umana,
diventa linguaggio, assume su di sé un discorso e un modo di essere. Seguire un
percorso di verticalità o raggiungere una cima per una cresta di misto o una
nord, significa provare uno stato di eccitazione, di attività espansiva e di
contatto con sè stessi che aiutano a comprendere “che ce la si può fare” ad
inoltrarsi in cammini evolutivi. Inoltre significa raggiungere uno stato di
maggior equilibrio psichico e di contenimento emotivo, di libertà espressiva.
Un alpinismo ben cosciente di essere un’attività dagli elevati contenuti di
imponderabilità, pur esprimendosi in una società dove incognite e rischi
tendono ad essere ridotti al minimo. Un alpinismo di scoperta dentro di sé, una
sorta di esplorazione verticale. Il passaggio dal fare al pensare è
fondamentale e si intreccia con il fare
con e il pensare con il contesto
relazionale (istruttori ed educatori) attraverso le funzioni di
accompagnamento, con i processi di ricostruzione e di ri-apprendimento, di
riconoscimento e di confronto tra Sé e la realtà esterna.
Dove il pensare significa riprendere a vedere, capire, misurare,
prevedere, intuire, ricordare, elaborare e comunicare ciò che si apprende
dall’esperienza. Consente una costruzione o ri-costruzione di una rete di
rapporti sociali che possa essere progressivamente interiorizzata, fatta
propria. La fatica e la bellezza; l’impegno e la determinazione; la rinuncia e
la conquista; la paura e il coraggio; la notte e la pioggia; il sole e la
bellezza dei panorami; le pareti e le creste; legarsi in cordata e la fiducia;
l’attenzione all’altro e la responsabilità; l’accettazione del limite e la
trasgressione. Dove il “passo dopo passo” significa cambiamento, spostamento e
incontro. Queste sono esperienze vitali che prendono forma attraverso il
linguaggio. L’alpinismo e il vivere lo spazio alpino esprimono un nesso tra
cultura e natura, tra mente e corpo. Ci si mette in gioco in un certo ambiente
e nelle relazioni, nelle cose da fare, nell’agire nel creare esperienze. E
tutto ciò attraverso il linguaggio. Sono esperienze educative, dove il
concreto, l’agito, il “vissuto” interagisce con il pensiero; cioè sul perché faccio, agisco, scelgo, sento, cosa dice per
me. È il setting terapeutico: l’esperienza diventa riflessione,
elaborazione, creazione di senso, possibilità di cambiamento.
Alpinismo è apprendere una tecnica: come ci si muove in
sicurezza in montagna, come si procede su un ghiacciaio, come si arrampica su
una parete di roccia. Come si prepara uno zaino, come si fanno i nodi, come ci
si prepara ad una salita e la si programma. Legarsi in cordata, oltre che apprendimento
di una tecnica, assume pregnanza metaforica: è da un lato responsabilità, stima
di sé, fiducia; ma dall’altro è costrizione, legame, vincolo; ma è anche
condivisione nel raggiungimento di un obiettivo. Alpinismo significa provare a
“cambiare il mondo”.
Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel
mondo, pur essendo del mondo. Staccare il corpo da terra è un modo per fuggire
dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio.
Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un
motivo. L’alpinismo non è solo “salire delle montagne perché esistono”
(Mallory), alpinismo è salirle perché mi parlano, mi attraggono, “hanno
qualcosa da dirmi”., mi toccano dal di dentro, mi incutono timore nella loro
saggezza. Molto del destino di ciascuno
dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara
o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno
riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che
in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per
tutta la vita.
Arrampicare, in alpinismo, è come avvolgersi in una
preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza,
dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un
angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. Arrampicare è uno svuotarsi di
ruoli, compiti, doveri. Apparenze. Arrampicare è come lo sciogliersi lento dei
nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da
impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni. Arrampicare è
scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso
dell’accoglienza.
Arrampicare è il movimento della nostra esistenza verso lo
sguardo benevolo del cielo che ci protegge, l’intorno che ci avvolge, la
verticale che ci seduce; qualche appiglio che chiama le dita, un appoggio per i
piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando
le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. È un modo umano
“per cambiare il mondo”
Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non
posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io sconosciuto
che io sono. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire. Arrampicare
è la nascita di un gesto che si intreccia a sentimenti ed emozioni che rompono
l’idea di sé come una identità definita; concentrazione emotiva e cognitiva di
scoperta del proprio equilibrio. È gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che
blocca. Rinuncia che supera sé stessa.
Arrampicare è dialogo con la vertigine, confronto con il
vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo,
apertura alla libertà dove l’azione domina di nuovo, ha ripreso il sopravvento,
e il sensibile ha ritrovato in noi il posto che gli spetta. Alpinismo è
vertigine che cammina sull’opportunità e possibilità di cambiamento. E non si
gioca impunemente con la vertigine (A. Lochmann,“Il bacio della vertigine”),
così come con qualsiasi altra ebbrezza che possiamo imporci (alcol, sostanze
stupefacenti, gioco d’azzardo, stati d’animo eccitati, impulsività…) per
scuotere la stabilità della nostra percezione. Il rischio è quello di perdervisi.
Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta
in tutti i suoi segreti. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in
noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in
ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio. Ma non solo. Ogni
volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie
motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che
non sappiamo di essere né di avere.
Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di
noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è
memoria storica…a volte nostalgia. Arrampicare è la verità eretica che si
manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa”
dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere
mancanti e insufficienti. Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del
suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione
che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia.
Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza
introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione,
contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico,
tempo e spazio. Il vuoto non è la
nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano
qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si
è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può
essere raccontata. (E. Camanni).
Alpinismo è perdersi e ritrovarsi. Poesia
della scoperta di sé, possibilità di cambiamento nell’accoglimento dell’altro
da me. La conversione dell’alpinismo, la nuova identità dell’alpinismo, secondo
me, è il cammino della ricerca attiva di sé con la montagna vissuta come
soggetto vivente e come partner in quel cammino verso l’espressione della sensibilità per l’umano con le sue fragilità
e debolezze. Un alpinismo,
incarnato storicamente, che si volge verso il volto dell’Altro come espressione
di un’identità umana all’incrocio tra il visibile (reale) e l’invisibile (la
sua essenza). Il volto dell’altro come fenomeno sociale, come l’estrema
avanzata nel mondo, come prua del destino personale.
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