Annuario 2023

Attraverso l’annuario, descriviamo brevemente e condividiamo l’attività del 2023. In sintesi, da febbraio a novembre, abbiamo totalizzato 76 giornate di pratica escursionistica e alpinistica, accompagnando in montagna diverse decine tra pazienti, personale medico ed educatori. L’attività è stata suddivisa in tre blocchi di proposte: 1) Corso di introduzione all’alpinismo, per i pazienti della comunità Arca di Como 2) Uscite escursionistiche per pazienti delle comunità e servizi diurni della rete “Passaggio Chiave”, costituita da: Sert Limbiate, Noa Bollate, Sert Bellano e Lecco, Sert Monza, Comunità Dianova, Comunità Arca, Comunità il Molino della Segrona, Comunità femminile La Costa, Comunità Solaris. 3) Uscite escursionistiche per pazienti dei comparti di psichiatria dell’ASST Rhodense.

L’annuario è possibile leggerlo e scaricarlo cliccando sulle tre diverse parti:

Parte 1Parte 2Parte 3

BUONA LETTURA

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Ciao BAFFO

Il nostro amico Baffo, ci ha lasciato il 5 di questo ottobre, a 71 anni, legati stretti per non lasciarseli scappare. Imbragato alla vita. Se ne è andato senza più fiato, tradito da una malattia impietosa, giunta sul suo corpo come un colpo di vento improvviso, mentre con piede fermo saliva la cresta verso la cima del suo destino.
Se ne è andato lottando, non “sazio di anni” come dice la Bibbia, con accanto sua moglie Milena, suo figlio Cesare con Fabiana e parenti e amici più fedeli, lasciando dietro di sé pezzi caldi di vita non vissuta, rimpianti, nostalgie. La morte è sempre spreco.
Di lui ci ricordiamo la disponibilità, la sua fedeltà, il suo costantemente “esserci” anche nell’assenza.
In questi giorni tristi, in questa atmosfera dolorante di amici, di solitudini, di volti, di esistenze, di lacrime sommesse il suo nome diviene momento unificante e il ricordo di lui si trasfigura e diventa di nuovo incontro. Un incontro, una memoria, forse una nostalgia, di certo un vento che asciuga la fronte, una mano che senti posata sulla spalla, un sospiro di sollievo, un sorriso dimenticato.
Nulla di quanto noi fortemente sognassimo, nulla di quanto noi testardamente sperassimo. E piangiamo straziati, mutilati, tentando, su tibie traballanti, di fuggire da questo nostro dolore. Invano e non ora.
L’amico Enrico si è inabissato in questo tramonto dell’anno. Piangiamo, ma il nostro cuore sia in pace, perché con il suo ultimo saluto ci ha dato la vita, il senso inafferrabile della vita e il non temere l’univocità della morte come uno spegnersi di stelle. Ci aspetta un arduo cammino; i nostri passi ora sono titubanti, come di orfani, come marinai nella nebbia, come alpinisti in cerca dell’appiglio. Sentiamo il peso dell’eredità, una eredità non di sangue, non un consolidamento di una entità solida: ciò che ereditiamo è una testimonianza. Proprio ora che ne sentiamo la mancanza.
E in noi, in cammino fin dall’alba di noi stessi,
arranca il nostro desiderio
e per valli, creste e cime,
ci inoltriamo nel nostro destino.
E mentre ci parla il colore del tramonto

e odiamo una musica lontana
innalzarsi come preghiera,
ci accompagna,
sotto lo sguardo severo di spigoli
e pilastri di granito,
il pensiero di te, amico Baffo.
Solo così il cammino si fa più dolce,
il passo più costante,
l’orizzonte più vicino,
il desiderio più vivo.
Così tentiamo la nostra vita
In un lungo e forte abbraccio
A te, al Lele, ad Antonio e Massimone.

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Mi fermo qui…e vado oltre (2)

di Beppe Guzzeloni

Giorni fa, Matteo Bertolotti, mi chiese se avevo voglia di scrivere un articolo per il nuovo numero de “lo Zaino” su alpinismo e disagio sociale. Argomento difficile e complesso, almeno per me. Nonostante una certa mia esperienza sia professionale che nell’organizzazione di corsi di alpinismo per persone che il disagio sociale lo vivono sulla propria pelle, vite rinviate. Una richiesta che mi ha lasciato comunque perplesso. Avevo deciso di non scrivere più nulla sulla cosiddetta montagnaterapia, termine da me poco usato, in quanto la mia riflessione aveva raggiunto una sorta di saturazione, di un “troppo pieno”.  Sentivo il bisogno di fermarmi e di chiarirmi le idee, ma allo stesso tempo emergeva in me il desiderio di andare oltre. Volevo trovare la strada che mi portasse a immaginare e realizzare progetti in cui l’alpinismo, e non il semplice accompagnamento escursionistico in montagna, diventasse strumento e opportunità di cambiamento per quelle persone che attraversano quotidianamente fragilità e vulnerabilità sociali, psico-fisiche ed esistenziali. Ed ecco che la “chiamata” di Willy mi spiazza, cerca di rimettermi in gioco solleticandomi pensieri diversi. Seppur ancora confusi.

Nelle ultime mie riflessioni apparse sullo Zaino riguardanti la pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano per descrivere ciò che di più profondo è dentro di noi, quel senso musicale e vitale che ci sollecita ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura e di introspezione. Da qui la pedagogia della montagna come affinità tra fragilità e bellezza, come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta e ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora” e sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà in cui agire con il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. E mi ponevo la domanda se la montagna è quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura e di mistero. E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Riflettevo, inoltre, come l’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza che presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. E’ così che intendo la pedagogia della montagna: una risorsa verso un viaggio verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta educativa per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esiste. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo nuovo. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una “salita” ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La pedagogia della montagna intesa come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica che agisce nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori, ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà; esperienza che tende alla “visibilità”, come la pensava I.Calvino,  e cioè non come pronunciamento dell’Io, come spinta egotica, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento, come esigenza di integrità. La pedagogia della montagna come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la pedagogia della montagna oggi è come riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la pedagogia della montagna diventa azzardo educativo, sguardo ulteriore dentro sé stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va vissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’alpinismo per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio delle montagne cerco la solitudine che è dentro di me e che mi aiuta a comunicare con l’altro. Alpinismo è opportunità di vivere l’avventura che spinge ad andare oltre sé stessi (scalando una parete) per andare verso l’altro per accoglierlo mentre lo incrociamo sulla strada della sua sofferenza superando frammentazioni, disimpegno e individualismo.

A questo punto, mi chiedo, quale rapporto ci può essere tra alpinismo e disagio sociale? Qual è il senso di tale domanda? Ci sono molte buone ragioni per le quali l’alpinismo (gli alpinismi?) dovrebbe chiedersi se la sua pratica possa contribuire a fornire una risposta esistenziale per coloro i quali attraversano le varie forme del disagio: sociale, esistenziale, psicologico, cognitivo, fisico… E questa è una domanda di fondo che l’alpinismo deve porsi e continuare a porsi. Vi sono state e vi sono risposte e testimonianze significative a tal riguardo. Esperienze e storie di alpinisti che hanno preso su di sé “la fatica dell’altro” (E.Hillary, G. Rossa, R. Videsott, B. Bonali , F. De Stefani, solo per citarne alcuni), ma vi sono altrettante “storie minori” che parlano di un alpinismo “solidale”. Deve avvenire una conversione nel mondo dell’alpinismo e ciò è possibile se avviene una crisi d’identità, solo se esso viene travolto da uno sguardo altro, una presenza, quasi nascosta ai nostri occhi, che interpella la nostra libertà che noi diamo per scontata e che cerchiamo di conservare a tutti i costi attraverso le nostre scalate. Ma l’esistenza reale di questo sguardo altro, disagiato e disagiante, ci rivela l’inconsistenza di tale libertà. Paradossalmente, l’azione alpinistica non teme il nuovo, lo sconosciuto di una parete, anzi l’alpinismo è alpinismo di ricerca di un nuovo equilibrio tra vecchio e nuovo, ma si arretra volgendo altrove il proprio orizzonte di fronte ad una mano tesa che arriva dal mondo sofferente come uno tsunami improvviso e sconvolgente. Eppure, tale evento vissuto come rottura di continuità dentro di sé e fra sé e il mondo, potrebbe essere il punto di arrivo di un lungo processo maturativo che ha attraversato e attraversa tuttora le varie fasi della storia dell’alpinismo, potendo così diventare più consapevoli sperimentando, come inizio della conversione, il buio e la cecità che ci imprigionano.

Quale alpinismo e quale passione per la montagna possono essere un’opportunità di risposta e testimonianza per il mondo del disagio? Non certo intesi come una relazione esclusiva, assoluta tra il soggetto e l’oggetto, tra me e la montagna, dove l’Altro sociale è escluso. Una relazione in cui l’oggetto diventa indispensabile, esigenza indifferibile, un qualcosa che non può venir meno, un qualcosa che non può mancare, dove il rischio potrebbe diventare condotta ordalica che si spinge fino alla sfida nichilista.

La mia esperienza, la mia scommessa e la mia proposta, non si fermano al semplice, seppur importante e significativo, accompagnare in montagna nel fare belle escursioni. Vorrei andare oltre, vorrei parlare e praticare l’alpinismo come opportunità di recupero di potenzialità, risorse e qualità, proprie dell’individuo, e da lui non più riconoscibili e utilizzabili prontamente, a causa delle limitazioni esistenziali derivate da deprivazioni relazionali, povertà economica e educativa. La montagna in quanto spazio naturale ricco di suggestioni metaforiche e simboliche, può diventare uno strumento di ricomposizione di sé; e l’alpinismo, in quanto attività umana, diventa linguaggio, assume su di sé un discorso e un modo di essere. Seguire un percorso di verticalità o raggiungere una cima per una cresta di misto o una nord, significa provare uno stato di eccitazione, di attività espansiva e di contatto con sè stessi che aiutano a comprendere “che ce la si può fare” ad inoltrarsi in cammini evolutivi. Inoltre significa raggiungere uno stato di maggior equilibrio psichico e di contenimento emotivo, di libertà espressiva. Un alpinismo ben cosciente di essere un’attività dagli elevati contenuti di imponderabilità, pur esprimendosi in una società dove incognite e rischi tendono ad essere ridotti al minimo. Un alpinismo di scoperta dentro di sé, una sorta di esplorazione verticale. Il passaggio dal fare al pensare è fondamentale e si intreccia con il fare con e il pensare con il contesto relazionale (istruttori ed educatori) attraverso le funzioni di accompagnamento, con i processi di ricostruzione e di ri-apprendimento, di riconoscimento e di confronto tra Sé e la realtà esterna.

Dove il pensare significa riprendere a vedere, capire, misurare, prevedere, intuire, ricordare, elaborare e comunicare ciò che si apprende dall’esperienza. Consente una costruzione o ri-costruzione di una rete di rapporti sociali che possa essere progressivamente interiorizzata, fatta propria. La fatica e la bellezza; l’impegno e la determinazione; la rinuncia e la conquista; la paura e il coraggio; la notte e la pioggia; il sole e la bellezza dei panorami; le pareti e le creste; legarsi in cordata e la fiducia; l’attenzione all’altro e la responsabilità; l’accettazione del limite e la trasgressione. Dove il “passo dopo passo” significa cambiamento, spostamento e incontro. Queste sono esperienze vitali che prendono forma attraverso il linguaggio. L’alpinismo e il vivere lo spazio alpino esprimono un nesso tra cultura e natura, tra mente e corpo. Ci si mette in gioco in un certo ambiente e nelle relazioni, nelle cose da fare, nell’agire nel creare esperienze. E tutto ciò attraverso il linguaggio. Sono esperienze educative, dove il concreto, l’agito, il “vissuto” interagisce con il pensiero; cioè sul perché faccio, agisco, scelgo, sento, cosa dice per me. È il setting terapeutico: l’esperienza diventa riflessione, elaborazione, creazione di senso, possibilità di cambiamento.

Alpinismo è apprendere una tecnica: come ci si muove in sicurezza in montagna, come si procede su un ghiacciaio, come si arrampica su una parete di roccia. Come si prepara uno zaino, come si fanno i nodi, come ci si prepara ad una salita e la si programma. Legarsi in cordata, oltre che apprendimento di una tecnica, assume pregnanza metaforica: è da un lato responsabilità, stima di sé, fiducia; ma dall’altro è costrizione, legame, vincolo; ma è anche condivisione nel raggiungimento di un obiettivo. Alpinismo significa provare a “cambiare il mondo”.

Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel mondo, pur essendo del mondo. Staccare il corpo da terra è un modo per fuggire dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio. Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un motivo. L’alpinismo non è solo “salire delle montagne perché esistono” (Mallory), alpinismo è salirle perché mi parlano, mi attraggono, “hanno qualcosa da dirmi”., mi toccano dal di dentro, mi incutono timore nella loro saggezza.  Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.

Arrampicare, in alpinismo, è come avvolgersi in una preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. Arrampicare è uno svuotarsi di ruoli, compiti, doveri. Apparenze. Arrampicare è come lo sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni. Arrampicare è scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso dell’accoglienza.

Arrampicare è il movimento della nostra esistenza verso lo sguardo benevolo del cielo che ci protegge, l’intorno che ci avvolge, la verticale che ci seduce; qualche appiglio che chiama le dita, un appoggio per i piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. È un modo umano “per cambiare il mondo”

Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io sconosciuto che io sono. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire. Arrampicare è la nascita di un gesto che si intreccia a sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita; concentrazione emotiva e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. È gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera sé stessa. 

Arrampicare è dialogo con la vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà dove l’azione domina di nuovo, ha ripreso il sopravvento, e il sensibile ha ritrovato in noi il posto che gli spetta. Alpinismo è vertigine che cammina sull’opportunità e possibilità di cambiamento. E non si gioca impunemente con la vertigine (A. Lochmann,“Il bacio della vertigine”), così come con qualsiasi altra ebbrezza che possiamo imporci (alcol, sostanze stupefacenti, gioco d’azzardo, stati d’animo eccitati, impulsività…) per scuotere la stabilità della nostra percezione. Il rischio è quello di perdervisi.

Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta in tutti i suoi segreti. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio. Ma non solo. Ogni volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né di avere.

Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è memoria storica…a volte nostalgia. Arrampicare è la verità eretica che si manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e insufficienti. Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. 

Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione, contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico, tempo e spazio. Il vuoto non è la nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può essere raccontata. (E. Camanni).

 Alpinismo è perdersi e ritrovarsi. Poesia della scoperta di sé, possibilità di cambiamento nell’accoglimento dell’altro da me. La conversione dell’alpinismo, la nuova identità dell’alpinismo, secondo me, è il cammino della ricerca attiva di sé con la montagna vissuta come soggetto vivente e come partner in quel cammino verso l’espressione della sensibilità per l’umano con le sue fragilità e debolezze. Un alpinismo, incarnato storicamente, che si volge verso il volto dell’Altro come espressione di un’identità umana all’incrocio tra il visibile (reale) e l’invisibile (la sua essenza). Il volto dell’altro come fenomeno sociale, come l’estrema avanzata nel mondo, come prua del destino personale.

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Mi fermo qui … e vado oltre

“A te si giunge solo attraverso di te. Ti aspetto” (Pedro Solinas in “La Voce a te dovuta”)

di Beppe Guzzeloni

Nelle ultime (penultime?) riflessioni sulla montagnaterapia, da me intesa come pedagogia della montagna, scrivevo che la poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui la pedagogia della montagna come cammino utopico dove l’utopia è concepita come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

L’utopia è un bisogno radicato nell’uomo: vi è nella coscienza della persona umana un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare, scriveva I. Silone. Il termine utopia, come sentimento puramente umano, è stato un altro nome per definire l’irreale, l’impossibile, un sogno fantastico o un’estrema speranza, ma presuppone una forte tendenza etica: una vera e profonda passione umana. La montagnaterapia come sguardo pedagogico e come risorsa spirituale verso un cammino verticale che investe l’etica dell’andare in montagna come scelta personale e come proposta terapeutica per una nuova dimensione sociale dell’aver cura e del prendersi cura.

E’ noto che l’origine del termine utopia risale a Tommaso Moro, un termine dalla doppia valenza: ou-topia (luogo che non c’è) ed eu-topia(luogo felice) e cioè un luogo felice che non esite. Connotazione visionaria e lontana dalla realtà, ma che consente all’uomo di decidere di cercare di superare le difficoltà legate all’imperfezione della propria condizione, immaginando uno stare nella società e in montagna in un modo rinnovato e sostenibile. Quindi l’utopia come progetto, come immaginazione e desiderio di realizzare una salita ritenuta, forse, impossibile; utopia come avvio di un percorso alimentato dalla speranza visionaria del possibile. “Il principio speranza” di Ernest Block che non fugge nell’irreale, ma valorizza le possibilità oggettive insite nel reale non rinunciando mai a credere per poterlo intuire e vivere con gli occhi della mente.

La montagnaterapia, come utopia contemporanea, come ricerca di una vita autentica agendo nella storia per aprire strade di speranza, verso la costruzione di progetti non illusori ma delineando possibilità di certezze che superino il disagio, l’insicurezza e il senso di precarietà. La montagnaterapia come “visibilità” intesa, non come pronunciamento dell’Io, ma come volo di un messaggio, come proposta di cambiamento. La montagnaterpia come proposta per l’oggi che guarda all’orizzonte: più si avvicina, più si allontana invitandoci al continuo cammino, all’oltre. Pensare la montagnaterapia oggi è riflettere sul significato delle condotte a rischio degli adolescenti che contengono una domanda dolorosa sul senso della vita. Esse sono modi per forzare il passaggio abbattendo il muro di impotenza che si avverte. Sono il tentativo di uscirne, di guadagnare tempo per non morire perché si vuole vivere. E sono volutamente trasgressive. La trasgressione è una fabbrica dell’impossibile e della ricerca del “totalmente altro”. Ci si mette in una posizione pericolosa in modo deliberato, si conoscerà la paura, si sperimenterà a proprio rischio la possibilità di sconfiggerla o di essere sopraffatti, ma con la forte speranza di uscirne vivi e più forti rilanciando una possibile trasformazione di senso del vivere. Sì, la montagnaterapia diventa azzardo pedagogico, sguardo ulteriore dentro se stessi e verso il mondo, invito a rompere gli schemi.

La montagna non ha nulla di umano, è un luogo in cui è difficile vivere, a volte pericoloso, perfino impossibile. E l’uomo vuole umanizzare la natura, non soltanto quella vivente, per sentirla più vicina, meno ostile o possibile da affrontare. La sacralità della montagna appartiene al regno della paura o del mistero, dell’elevazione. L’inospitalità appartiene ai nostri interrogativi. In montagna apriamo la porta su un mondo sconosciuto e ci appare una sorta di miracolo: veniamo invasi dai sentimenti più disparati, ci riempiamo di idee e di curiosità, sogniamo imprese che magari incutono paura e ci dissetiamo alla fonte della necessità di osare e rischiare.

Io trovo il senso di camminarla, la montagna, arrampicarla, guardarla comunque. Non c’è altro che mi attira, a volte anche senza una meta, a volte senza raggiungere una meta prescelta, se non la motivazione di andare in montagna e basta. Ma andarci con il gusto di vivere l’impotenza davanti a lei e tale sentimento equivale a una bellezza smisurata. Forse anche questo è montagnaterapia. E dico questo perché la montagna di abitanti, alpinisti o viaggiatori (non turisti) o poeti ha un senso diverso con l’uomo. Bisognerebbe spiarla senza di noi, operazione impossibile se non attraverso un corridoio del tempo che ci porti al passato. L’uomo accumula ricchezza effimera, ne ha bisogno. Non può bastarsi. Ecco, la possibilità che tale ricchezza non resti effimera ma possa essere eredità per il futuro, è l’utopia cui deve tendere la poesia del verso pedagogico che si chiama montagnaterapia.

Le montagne, prima di essere conquistate fisicamente, devono essere conquistate culturalmente. Che piova o nevichi, che splenda il sole o soffi il vento, a piedi o con gli sci, arrampicando o a cavallo di creste, la montagna va cissuta in ogni suo aspetto con molta considerazione. L’andare in montagna per me è dare vita ai pensieri, perché salire significa generare. Nel silenzio cerco la solitudine, che è dentro di me, e che mi aiuta alla comunicazione con l’altro. Forse, in montagna, vado oltre me stesso per andare verso l’altro, in cerca non di avventura ma piuttosto ricerca di armonia tra uomo e natura. E questo è montagnaterapia intesa come luogo di incontro tra montagna e persona umana.

E così concludo la mia riflessione sulla pedagogia della montagna. Pensieri e parole buttate lì, su uno schermo del computer. Con uno sforzo che si augura di essere poetico ed utopico e che mi ha fatto sognare e immaginare una trasformazione. Ne avevo bisogno. Pensieri che restano in me come opportunità di provare ad inoltrarmi in nuovi sentieri di senso che attivino scelte e comportamenti che trasgrediscano l’ovvio e del “si fa sempre così”. Utopia? Certo.

Mi fermo qui con i versi di Solinas, con una piccola modifica: A te si giunge solo attraverso di te: aspettami, montagna! E da tempo che sono partito…

E vado oltre restando fedele al mio fermarmi.

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La pedagogia della montagna tra bellezza e fragilità

di Beppe Guzzeloni

“Gli uomini non sono nati per morire ma per incominciare” così scrive Hanna Arendt in “Vita Activa”. Questa frase mi ha accompagnato in questi giorni, prossimi al Natale, a riflettere su quell’esperienza particolare che sta seducendo il CAI con avvenimenti significativi e importanti, chiamata “montagnaterapia” e su alcune idee, buttate lì come mattoni, che ho iniziato ad avere in questi anni su ciò che chiamo “pedagogia della montagna”, come tentativi di immettermi faticosamente e, forse illusoriamente, in quel pensiero vorticoso di costruire un diverso paradigma, una nuova traccia che integri e vada oltre la definizione e l’espressione pratica di “montagnaterapia”. Un pensiero in equilibrio precario su creste affilate avvolte dalla nebbia del dubbio, una riflessione critica che ha scelto di affrontare passaggi impegnativi per cercare di mettere le fondamenta ad un’esperienza ancora all’inizio del proprio, incerto, futuro. Fortunatamente non esiste una risposta che possa soddisfare la domanda di senso che provo a pormi. Ciò non toglie che, per essere realmente tale, ogni inizio è un taglio che si apre, che scava un vuoto alle nostre spalle senza offrirci una chiara visione di ciò che ci aspetta. Questi miei pensieri sono negli anni della loro adolescenza, dove prima ancora che del rinnovamento, essi sono una metafora dell’incipit di ciò che mi frulla per la testa. Un inizio che non è mai quello che ci aspetteremmo, solare e armonico, ma è un’alba che appena s’intravvede che guardando dietro di sé non trova appigli cui attaccarsi e che avverte con una certa inquietudine i segnali di quell’incognita di vita che sente crescere dentro di sé. L’esperienza di questi anni ha visto la montagnaterapia in cerca di riconoscimento e visibilità da parte di operatori, pazienti e volontari, ma soprattutto da parte delle istituzioni sociali e sanitarie. E io credo che essa debba spingersi oltre, di forzare i confini della propria visibilità sociale per mantenersi in contatto con quel punto sorgivo del proprio essere e della propria scelta di esserci.

Ma qual è il punto sorgivo, la fonte da cui scaturisce un pensiero che man mano si è fatto prassi? Io non lo vedo, anche se invece così sembra ed appare, solo all’interno del discorso clinico e terapeutico, ma nasce, in me nasce, dal bisogno di poesia. Poesia che ci insegna a vedere il mondo con occhi diversi, che ci fa provare sensazioni, che unisce corpo e mente e che permette a ciascuno di noi di esprimersi nel proprio linguaggio. È senza dubbio difficile farsi un’idea di questa sorta di non-luogo per avvicinarci al quale noi, esseri razionali e pratici, dobbiamo ricorrere per dimostrarne l’esistenza. E qui intendo la poesia come un pensare ad un che di utopico, di un qualcosa che non si trova, ma c’è. Che si dilegua ma che pur esiste. Non è frutto della nostra immaginazione. Utopia come ritrovamento, come percorso di speranza e di scoperta individuale e sociale. E ciò può avvenire non attraverso i percorsi conosciuti, consolidati, tracciati che si rilevano sulla cartografia ufficiale, ma solo attraverso la marginalità, i sentieri nascosti, quasi irraggiungibili. La poesia ha la forza necessaria per recuperare le parole che ci mancano e che ci costringe ad un continuo sforzo di pensiero, di scrittura, di scavo nei meandri, per ritrovare il senso musicale (U. Saba) come naturale armonia che è insita in ognuno di noi. Da qui l’utopia come scoperta, come cammino di ritrovamento di noi stessi. L’utopia e la speranza non sono dunque il regno dell’impossibile ma quello del “non ancora”, sono continuamente esposte al rischio e all’incertezza e richiedono impegno costante nella comprensione della realtà sia di azioni nella realtà che esprimano il coraggio di assumere come modello un nuovo rapporto quotidiano uomo-natura. È forse la montagna quel luogo che ci può offrire l’opportunità di scrivere, ognuno di noi, la sua poesia come sguardo utopico attraverso il quale, periodicamente, sentiamo il bisogno di affacciarci al suo punto di scopertura? E il più delle volte è avvicinandoci al segreto delle cose, ma soprattutto delle persone che non hanno storia o nome, che si riesce a percepirsi a propria volta senza nome e senza storia: a toccare la notte ed essere la notte stessa. Come sempre la profondità è nella superficie delle cose.

Stiamo vivendo un momento di svolta, nell’approccio alla montagna. Se negli ultimi due secoli, perlomeno, il modello di essere umano era costituito dal cittadino costruito dalla civiltà industrializzata, che andava in montagna o per contemplare la natura selvaggia, eventualmente studiandola o per conquistarla (assediarla?) fisicamente, per sfruttarne le risorse naturali depredandole, oggi il rapporto con la montagna diventa sempre più necessario per rigenerarsi (fuggire?) dall’epoca tecnologica e, soprattutto, per attingere uno stile di vita alternativo. Lo stile, la via che mostra la montagna è il limite e l’insieme di orizzontalità e verticalità come dimensioni essenziali, entrambe, per una maggior autenticità umana che “sa prendersi cura e avere cura”. Ecco, per me la “pedagogia della montagna” è il tentativo di iscrivere il proprio nome all’interno di questo discorso, a questo nuovo linguaggio che vuole esprimere e significare quell’etica del prendersi cura, come sollecita l’Enciclica “Laudato Si’” intesa non solo come valore di riferimento, ma come impegno personale e collettivo a rendere sperimentabile la riprogettazione e la qualità della vita. E la montagna insegna i limiti costitutivi dell’uomo, delle proprie debolezze, fragilità e marginalità, e non è solo via di fuga dalle civiltà omologanti, ma anche sperimentazione in cammino, esperienziale abitare una dimensione che dilata le potenzialità umane. La pedagogia della montagna è pensiero esperienziale suscitato dalla montagna stessa, la quale apre il cammino, che conduce a sé, a chi ne sappia ascoltare il silenzio, attendere il respiro, inoltrarsi, quasi intimoriti, nella realtà verticale. La montagna, come pedagogia, è soggetto, prima che oggetto di pensiero; soggetto significativo per la vita in genere che incarna in modo esemplare la dimensione autentica, profonda della vita a condizione che chi la avvicini sia consapevole della propria finitezza e ulteriorità della montagna; sia che la si abiti come montanari, sia che la si frequenti come alpinisti, in montagna si vive solo grazie alla proprie limitate forze, spesso marginali, eppure sufficienti al sopravvivere perché capaci e disponibili  di fare libera esperienza, per gradi, del personale limite, sempre lambito e mai superato.

La pedagogia della montagna è la possibilità di vivere la montagna per quella che realmente essa è; non idealizzata come negli spot pubblicitari di ambientazione alpina e sportiva in cui essa viene raffigurata secondo una perfezione ipostatica, assoluta, capace di rendere visivamente quel concetto di perfezione che in natura non esiste. È questa la montagna che il pubblico vuole vedersi proporre: idilliaca, mai sudata, mai piovosa o fradicia, frequentata da persone mai scomposte, in un tempo fittizio, impermeabili alle forze della natura: una montagna che crea benessere psicofisico come atto miracoloso e consumistico, che va oltre le nostre vulnerabilità. La pedagogia della montagna è inventare la propria montagna. Essa non esiste se non le dò un senso, se non me ne occupo, se non me ne prendo cura. Il mio benessere è la sua conservazione. Ed è la sua salvaguardia che mi offre opportunità di vivere momenti di vigore e salute.

Io credo che le parole “che si dicono”, il linguaggio che viene usato, trasmettono risonanze emozionali che mentre vengono pronunciate si riflettono in chi ascolta, ancor più se la nostra relazione con l’altro è mossa da intenzionalità educativa o veicolata da un legame o da una relazione d’aiuto. Le parole possono infatti mitigare la sofferenza in chi fatica a vivere e a resistere alle proprie fragilità, parola che ricorre in relazione a molteplici condizioni e difficoltà. Fragilità vuol dire avere a che fare con la mancanza che alberga nell’uomo e che lo spinge, frequentemente, a difendersi attraverso il distacco, l’indifferenza, l’isolamento, vivendo le relazioni a “distanza di sicurezza” da ogni coinvolgimento, lontano da ogni empatia, dalla possibilità ad intravvedere esperienze “di futuro”. Fragilità è parola rinviante a dimensioni dell’umano che agiscono su vari piani. Pensiamo alla disabilità, alla malattia, all’esclusione sociale, alla devianza, ma anche all’aspirazione ad essere e “sentirsi inclusi e appartenenti” per coloro i quali, privi di una rete e di legami sociali, non possono vedersi riconosciuti e far valere la possibilità di attuare a pieno le proprie capacità o di avere l’opportunità di poter esprimere le personali risorse. In tutti i casi, la fragilità attiva un’istanza per il riconoscimento di sé e per la ricerca di uno spazio inclusivo, di condivisione e costruzione di relazioni tanto sul piano della vita personale, quanto su quello comunitario e in relazione ai contesti nei quali le fragilità diviene sfida e voce critica per la società.

Al di là delle modalità di aiuto e intervento, emerge l’urgenza di prestare attenzione a ciò che non è manifesto, alle dimensioni dell’implicito, del ciò che “ci sta dietro” che attraversano i diversi spazi educativi, nelle relazioni interpersonali. Ma non solo, anche in relazione all’ambiente alpino vissuto nelle sue diverse dimensioni, qualcosa di “invisibile” accade di coinvolgente: l’esperienza della bellezza. La montagna come estetica del paesaggio, naturale e antropologico, diviene il “setting”, quel possibile luogo di cura e del prendersi cura che aiuta a superare, nella sua accettazione, le proprie e altrui fragilità. Guardare alla montagna, vivere la montagna, sotto il segno della bellezza significa affermare, come ricorda E.M. Cioran, che è esattamente come dovrebbe essere in quanto nella bellezza tutto trova una ragione d’essere, il suo equilibrio, il suo senso profondo, il suo slancio poetico. La pedagogia della montagna come esperienza della bellezza, vissuta, conservata, arricchita da comportamenti funzionali, idonei alla sua salvaguardia. La bellezza della montagna (e della natura) dà respiro ad una visione del mondo in cui tutto si scioglie in armonie e splendori, dove le fragilità e le vulnerabilità umane non fanno che accrescerne il fascino. La bellezza della montagna non salverà né guarirà certo il mondo, ma avvicinerà a quel benessere personale e sociale coloro i quali si incammineranno nell’impegno costante nel salvaguardare e tutelare la sua anima che, come ogni ambiente naturale, può trasformarsi positivamente in idea di azione, in teoria di paesaggio, in luogo degli uomini e delle donne purché essi siano messi nelle condizioni di identificare e perseguire liberamente i propri desideri.

Se, come ricorda Papa Francesco nella sua “Laudato Si’”, teniamo conto che le persone sono creature di questo mondo, che hanno diritto a vivere felici e hanno una particolare dignità, non possiamo tralasciare di considerare gli effetti del degrado ambientale dell’attuale modello di sviluppo sulla loro vita. Ecco che allora, la pedagogia della montagna può divenire un’esortazione all’impegno, alla costruzione di reti solidali, di modi di intendere e frequentare la montagna che si ispirino a quella poesia dell’utopico inteso come edificazione del possibile, del “qui e ora” che si proietta in un “non ancora”. Ecco, quindi, che la pedagogia della montagna diviene spazio terapeutico, setting particolare e specifico attraverso cui avviare quel processo del prendersi cura di sé e dell’altro che si manifesta nell’aver cura della montagna come sintesi che sollecita a porre lo sguardo verso le meraviglie del mondo alpino come spinta coraggiosa del saper vedere le fragilità come capacità “di sentirsi dentro” e di riconoscere la propria e altrui unicità e meraviglia in relazione ad una vita che, anche  se sfilacciata, va percepita, riconosciuta, vissuta e raccontata abbracciandone l’interna bellezza che alimenta qualsiasi relazione d’aiuto. La pedagogia della montagna come pedagogia della bellezza e della fragilità in quanto frutto di una sottile, ma forte, sensibilità per l’umano e affascinazione per l’ambiente e del paesaggio alpino che concorrono ad alimentare l’attenzione alla persona, sollecitandola a prendersi cura e a imparare a riconoscere la stessa bellezza come cura. Pedagogia della montagna come significato di quella affinità tra fragilità e bellezza come possibilità e opportunità poetica di attingere al profondo di ognuno di noi per dare vita a qualcosa di bello e significativo.

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In ricordo di un amico

Il 29 maggio 1990, all’età di cinquant’anni, lasciava un segno profondo nella vita dei suoi familiari e dei suoi amici, Felice Damaggio, l’avvocato Damaggio.

Una morte prematura che ha strappato alla neonata Alpiteam, Scuola di alpinismo Lombarda del Club Alpino Italiano, nata ufficialmente nel 1986, l’intelligenza, la sensibilità e la passione per le montagne di una personalità di vasta cultura che, con altri amici, aveva partorito, anni prima, l’idea di concepire le scuole del CAI come rinnovato strumento tecnico-culturale aperto al territorio e alla società, rifuggendo qualsiasi forma di campanilismo sezionale e particolarismo referenziale.

Nato nel 1940, socio del CAI dal 1962, aveva via via prestato la propria disponibilità per numerosi incarichi sociali: un mandato in qualità di Presidente della sezione del CAI di Seregno e della sua scuola di alpinismo “Renzo Cabiati”; componente, come si chiamavano allora, del Comitato di Coordinamento delle Sezioni Lombarde; membro della Commissione Legale Centrale e convinto propugnatore e poi cofondatore e primo presidente di Alpiteam.

L’Avvocato Damaggio, così chiamato dagli amici, raccoglieva in sé l’entusiasmo propositivo, l’attaccamento al sodalizio e la capacità di lucida e costruttiva analisi, a volte dirompente, delle problematiche che incombevano nelle scuole del CAI di quegli anni.

Suo il contributo, fatto proprio dal Consiglio Centrale del CAI nel 1987, di unificare le commissioni scuole di alpinismo e scialpinismo e di focalizzare più adeguati ruoli di scuole, corsi e istruttori, delineando nuovi assetti organizzativi.

Felice, inoltre, possedeva una rara onestà mentale, a cui non rinunciava, di essere impopolare o contro corrente, per essere coerente e convinto assertore di disinteressati principi e obiettivi pensati con una visione e uno sguardo lungimiranti.

Alpiteam nasce dal cuore dell’avvocato Damaggio nonostante la sua malattia che non ha tolto fiato alla sua determinazione dimostrata nel superare le obiettive difficoltà che aveva incontrato all’interno del CAI e le incomprensioni che poi sono state sciolte con il riconoscimento ufficiale di Alpiteam.

Alpiteam è stato il suo sogno, il suo “salto in avanti”, la sua proposta che, affiancato da altri amici e istruttori, si concretizzata nel 1986 come Scuola di Alpinismo del Club Alpino Italiano.

Quel salto in avanti, quella forza dirompente che nutriva il suo docile e amabile carattere, lo portò, in sintonia con tutti gli istruttori di Alpiteam, alle prime esperienze di montagnaterapia con la Comunità Terapeutica Arca di Como. Tuttora quel progetto porta in sé il suo nome e di tutti coloro che vi hanno creduto. Passaggio Chiave ne è la sua eredità.

La storia di Felice Damaggio è la storia di un nuotatore controcorrente che prendeva forza dalla sua voglia di futuro. Certo aveva le sue inquietudini, le sue malinconie, ma non ha mai dismesso la sua responsabilità di essere socio del sodalizio, che non ha ceduto davanti alle difficoltà di “trovare la sua via” all’interno di una parete vasta come quella del Club Alpino Italiano.

L’avvocato Damaggio era legato ad una cordata molto affiatata e con la quale ha potuto osare forzare quella parete e intuire quel percorso il cui nome è Alpiteam.

A trent’anni dalla morte di Felice, tutti gli istruttori di Alpiteam, vecchi e nuovi, lo ricordano con affetto, riconoscenza e stima con la consapevolezza che le scuole di alpinismo del Club Alpino Italiano portano in sé la sua eredità e cioè che svolgono un’attività di rilevanza sociale, di indirizzo, di ricerca e proposta didattica, culturale ed educativa che abbia a cuore la frequentazione della montagna, la sua tutela e salvaguardia.

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Viaggio verticale

Un altro prezioso contributo di Beppe Guzzeloni

Esistono molti modi per fuggire dal mondo pur restando nel mondo, pur essendo del mondo. Alzare il corpo da terra è un modo per fuggire dal nostro mondo. Arrampicare è uno dei suoi verbi. Il suo linguaggio. Arrampicare significa voler intraprendere un viaggio e per questo serve un motivo.

Molto del destino di ciascuno dipende da una domanda, una richiesta che un giorno qualcuno, una persona cara o uno sconosciuto, rivolge, mette in moto il desiderio: d’improvviso uno riconosce di aspettare da tempo quell’interrogazione, forse anche banale ma che in lui risuona come un annuncio, e sa che proverà a rispondere ad essa per tutta la vita.

Arrampicare è come avvolgersi in una preghiera, senza chiedere, ma solo per allontanarsi dal centro dell’esistenza, dalla quotidianità. Arrampicare è come entrare in una chiesa per tacere, per un angolo di silenzio, per svuotarsi la mente. E’ uno svuotarsi di ruoli, compiti, doveri, apparenze.  E’ come lo sciogliersi lento dei nodi dentro la bocca di un balbuziente che si ritrova svincolato da impedimenti, dopo una lotta per arrivare ai propri sogni; è scoprire l’emozione della bellezza come un estraneo che vive il senso dell’accoglienza.

Arrampicare è il movimento del cuore verso lo sguardo benevolo del cielo che ti protegge, l’intorno che ti avvolge, la verticale che ti seduce, qualche appiglio che si dona alle dita, un appoggio per i piedi cercato con dovizia e la spinta delle gambe per innalzarci accarezzando le vertigini del vuoto, fuori e dentro di noi. Non serve altro. E’ la spinta dell’umano verso l’Alto.

Arrampicare implica una relazione con un qualcosa che non posseggo, che non comprendo, un qualcosa altro da me che provoca in me l’io che sono senza volerlo, che a volte respingo e non conosco. Ma che m’inchioda a quel me stesso da cui vorrei fuggire.

Perché di viaggio si tratta. La scalata ha la ritualità del viaggio: l’idea di un desiderio, progetto, preparazione, materiale nello zaino, la scelta condivisa di un compagno, saluti, partenza, azione, nostalgia e ritorno.

Arrampicare è la nascita di un gesto, di un qualcosa di proprio, sequenze di scelte che abbandoniamo e ritroviamo. Un intreccio di sentimenti ed emozioni che rompono l’idea di sé come una identità definita.

 Arrampicare è ritornare a muoversi a quattro zampe, è il selvaggio che portiamo in noi, è parlare con il proprio corpo, spesso a noi sconosciuto. E’ pelle nuda che si confonde con la naturalità della roccia. E’ usare ogni muscolo, concentrazione emotive e cognitiva di scoperta del proprio equilibrio. E’ gioia che danza. Cuore in gola. Ansia che blocca. Rinuncia che supera se stessa; dialogo con la vertigine, confronto con il vuoto, accoglimento della paura di cadere come fantasia di spiccare il volo, apertura alla libertà.

Arrampicare è la roccia che si apre a noi, che si manifesta in tutti i suoi segreti. Basta guardarla con attenzione. La roccia si fa accarezzare, lo permette, crede in noi. La parete ci accoglie e la roccia è la sua parola. Bisogna porsi in ascolto. Sentirsi parte è l’arrampicata che si fa linguaggio.

Arrampicare è muoversi in libertà all’interno di un viaggio in cui le mani hanno trovato la via e i piedi la seguono. In cui corpo, cuore e anima condividono l’itinerario animati dalla tensione, dall’utopia, dalla speranza che ciò che ci spinge a scalare, le motivazioni profonde che ci sospingono verso l’alto, diventino realtà. Ogni volta che si sceglie di arrampicare si azzarda una nuova nascita delle proprie motivazioni, una nuova esplorazione di esse e di ciò che non conosciamo, che non sappiamo di essere né di avere.

Arrampicare è muoversi nella storia di persone che prima di noi hanno messo mani sugli appigli che noi oggi sfioriamo. Arrampicare è memoria storica…a volte nostalgia. E’ la verità eretica che si manifesta a noi come contraddizione: arrampichiamo con l’illusione “grandiosa” dell’apparenza quando, invece, ci riveliamo per quello che siamo: essere mancanti e insufficienti.

Arrampicare è lo sguardo dell’altro, è la ricerca del suo volto; fiducia che si fa carne, gratitudine che si fa sorriso, condivisione che si fa abbraccio, stretta di mano da cui sgorga l’amicizia. A volte, invece, nasconde invidia. Arrampicare è perdersi e ritrovarsi. Utopia della scoperta ma anche nostalgia del ritorno.

Il viaggio, come il sogno, può diventare esperienza introspettiva, esplorazione di sé, dei propri abissi. Contemplazione e azione, contrapposizione tra orizzontale e verticale, il domestico e il selvatico, tempo e spazio. Il vuoto non è la nostra casa, viviamo l’ospitalità del passaggio, attori in scena che recitano qualcosa di sé. E alla fine del viaggio non si è più come prima. L’orizzonte si è capovolto. Un altro equilibrio è stato reinventato. Un’altra storia può essere raccontata.

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E’ possibile cambiare? 2

di Beppe Guzzeloni

E’ spaventoso, ma al contempo affascinante, questo nostro mondo senza di noi. Gli animali si riappropriano dei loro spazi, le acque dei fiumi sono più pulite, lo smog sparisce dai cieli delle grandi città, le montagne abbracciano orizzonti lontani, il silenzio ode la propria voce e la natura respira grazie al ritorno della solitudine. E noi, seppur impauriti, cogliamo che c’è qualcosa di bello in tutto ciò. E vorremmo che continuasse. Dall’angoscia del rischio del contagio e dal timore di perdere la nostra libertà individuale e collettiva, è subentrata l’angoscia di perdere il mondo con le nostre abitudini e la possibilità di vivere insieme come prima. E quindi lo spaesamento dovuto alla difficoltà di rappresentarci come saremo e come vivremo.

Come scrive Padre Luciano Manicardi Priore della Comunità di Bose nel suo libro “Fragilità”, anche il crollo di un impero, come la fine di una relazione coniugale o il fallimento di una grande azienda possono apparire improvvisi, ma in verità sono preparati da una storia, più o meno lunga. Dove c’è imperfezione, c’è qualcosa che accade, un evento, un processo, un mutamento, una relazione. Anche quanto stiamo vivendo in questi mesi di emergenza epidemica che stravolge le nostre storie mettendo a dura prova la nostra economia, le nostre relazioni sociali, il nostro stile di vita, fors’anche il nostro stesso senso del vivere, è uno svelarsi di verità altrimenti nascoste, il “totalmente altro “. Il Covid 19 è figlio delle nostre aggressioni all’ambiente, della riduzione degli spazi biologici che inducono ogni forma vivente a sopravvivere dove e come può. L’uomo ha devastato il Giardino Terrestre mettendo le premesse per l’incontro con il perturbante: ciò che sembrava conosciuto e familiare si snatura, e ciò che conoscevamo, ciò a cui eravamo abituati, si svela in una nuova prospettiva. Che ci obbliga a fermarci, a riflettere, a ripensare su come ripartire. Il perturbante offre l’opportunità di cogliere una visione eterotopica (M. Foucault) del nostro mondo. Ciò che è stato, in gran parte non dovrà più essere.  L’esperienza della pandemia ci dice già che non torneremo alle condizioni di prima, non sarà un riprendere lo stile di vita precedente, ma sarà l’avvio di una sofferta trasformazione individuale e collettiva, personale e globale. Il Covid 19 è l’occasione di prendere coscienza di essere stati catapultati in uno spazio “altro”, in un “non luogo” diversi da quelli da noi conosciuti. La tragicità dell’emergenza endemica che ci attraversa diventi fonte di energie e visioni nuove. Sia un attraversamento del deserto, sia spoliazione di egoismi e individualismi, dove la libertà diventi costruzione di una convivenza solidale tra uomo e natura.

Mi manca moltissimo la montagna e la sua frequentazione, soprattutto attraverso l’alpinismo. Ho nostalgia della quota, dell’ambiente glaciale, dei pilastri di granito e degli spigoli dolomitici; così come sento il profondo bisogno di spazi aperti, di camminare su sentieri e cavalcare creste. Vorrei tanto che l’ambiente alpino rinasca con altre logiche economiche e culturali perché diventi realmente strumento per una vita migliore i cui valori si basino sulla coscienza civile, solidarietà, senso del bello, e che questi valori vadano trasmessi e conservati per le generazioni future. Credo che tutte queste cose siano racchiuse nel cuore della montagna e delle sue genti, che tutti quelli che la frequentano dovrebbero avvicinarsi ad essa con la voglia di rispettarla e che non si comportino da conquistatori e predatori, sconvolgendo habitat, tradizioni e storie di vita alpina.

Comprensibilmente l’attenzione, oggi, degli amanti della montagna, di noi istruttori, si concentra sul come e quando riprendere a effettuare salite, calpestare sentieri, legarsi in cordata, arrampicare e sentire “il proprio respiro” libero da costrizioni. Emerge il problema della frequentazione dei rifugi, del trasporto, del distanziamento sociale che tale emergenza ci ha imposto, dell’uso o meno delle mascherine, del programmare gite in piccoli gruppi, di come affrontare una sosta o effettuare una corda doppia cercando di rispettare le indicazioni per evitare possibili contagi.  Usare o meno del disinfettante dopo ogni manovra; fare attenzione a dove metto le mani; a sanificare attrezzatura e materiali vari dopo l’utilizzo…. Certo, questo è un vero problema che si deve affrontare e a cui cercare di dare risposte. E ciò influenzerà in modo considerevole il nostro modo di andare in montagna e il nostro modo di essere istruttori. Tutto questo concerne un cambiamento di mentalità, aumentando e affinando la nostra preparazione sia tecnica che culturale, consolidando il nostro senso di responsabilità. Ma il salto di qualità consiste nell’essere consapevoli che le Scuole di Alpinismo svolgono un’attività di rilevanza sociale, di indirizzo, di ricerca e di proposta culturale che abbia a cuore la frequentazione della montagna. Le Scuole di Alpinismo assumono su di sé una valenza educativa. Educare nel tempo delle problematicità non significa aumentare il senso di sicurezza, bensì far emergere a livello cosciente le resistenze che si oppongono al cambiare direzione nei confronti della montagna e di come viverla alla luce della sostenibilità e della sua salvaguardia; a decidere se veramente si vuole affrontare il difficile compito di incamminarci su sentieri nuovi che l’esperienza dell’emergenza sanitaria ci sta obbligando a percorrere.

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E’ possibile cambiare?

di Beppe Guzzeloni

Mentre scrivo, in una Pasquetta tiepida, di quest’anno bisestile, gli alberi si gonfiano, scoppiano le gemme; le prime foglie mostrano il loro verde tenero sui rami rugosi, i clivi si coprono di primule: grandi macchie colorate che chiazzano l’erba sotto le siepi, ai piedi degli alberi, negli avvallamenti del terreno. E le finestre restano aperte per assorbire il calore del sole e udire le rondini garrire; nelle corti il bucato sospeso alla fune dondola, gonfiandosi come una vela alla brezza di primavera. E fuori, per le strade, non sento voci e rumore d’auto; solo, in lontananza la sirena di un’autoambulanza e le ore ricordate dal campanile. L’aria è più pulita e il silenzio si fa più presente. Non ero abituato al silenzio cittadino, pensavo non esistesse.  Invece, l’arrivo di un virus invisibile ma tangibile, ha sconvolto la nostra esistenza. Uno tsunami improvviso, una valanga imprevedibile di enormi dimensioni ha ribaltato la nostra società con una crescita esponenziale di contagi, vittime, fratture familiari e relazionali. Un’impalcatura economica, sanitaria e sociale messa a dura prova. Storie personali e psicologie individuali rivoltate come un calzino. Uno stile di vita crollato come un castello di carta. Il contagio è diventato la misura di come la nostra società sia globalizzata, interconnessa, intricata. Il Covid 19 ha svelato ciò che sapevamo, ma non immaginavamo con quale potenza e velocità avrebbe avuto inizio la destrutturazione della nostra complessità, del mondo che abitiamo e delle sue logiche economiche, politiche e sociali. Una sorta di tabula rasa, di azzeramento, di smarrimento. Nei mesi precedenti avevo effettuato delle belle salite sulle montagne lombarde e svizzere, canali e creste innevate, in ottime condizioni. Avevo anche ripreso ad arrampicare su qualche falesia. Avevo progetti di salite, c’era da organizzare i corsi di alpinismo, incontri sociali al CAI, riunioni istruttori. Il mio lavoro di operatore sociale che mi impegna tutti i giorni della settimana. Insomma, la mia solita vita fatta di interessi, impegni, contatti. Sì, una vita piena che, in breve tempo, si è trovata catapultata all’interno di uno spazio vuoto a causa delle misure di contenimento e di distanziamento sociale.  Esperienza condivisa da molti.  Da una presenza e da una pienezza consolidate negli anni da abitudini, progetti, relazioni, fors’anche sogni, mi sono trovato in un salto nel buio che si rovescia nell’esperienza del vuoto, della mancanza, dell’imprevedibilità, nell’insicurezza e nella paura. In un girovagare, materiale e spirituale, in uno spazio tanto fisico quanto interiore in cui l’incontro con l’altro è ridotto al minimo. Ho cercato, così  di riempire la mia giornata “facendo”, di inventarmi cose da fare, leggere, sentire musica, videotelefonate, chiacchiere per ore, ginnastica casalinga. Tutto ciò per fuggire dal vuoto, invece che viverlo, di attraversarlo e di saper aspettare. Le montagne sanno aspettare, io sto imparando il coraggio di rinunciare ad un qualcosa cui tengo molto.  Ma l’attesa che vivo in questo periodo è diversa da quella precedente. Prima sapevo aspettare ciò che avevo progettato. Un’attesa di un qualcosa di certo e definito. Ora è diverso. Sto sperimentando un’attesa desiderante un qualcosa da costruire, da rivedere, riformulare, riprogettare. Ho iniziato a scoprire l’essenziale, a viverlo di persona, con tutta la fatica e le difficoltà che ciò comporta. E soprattutto a toccare con mano la solitudine, a fare i conti con l’ansia, a temere il sospetto e il mio stesso respiro: potrei essere contagioso. Una solitudine che mi interpella, che mi pone domande, che non esige risposte immediate. Mi sono accorto di essere entrato in un deserto e devo attraversarlo. Da solo, ma con il mondo intero. “Da soli non se ne esce”. Nel contagio epidemico se ne esce solo con un nuovo senso di “essere comunità”, nel nostro quartiere, paese, città, con uno sguardo rivolto al mondo: l’epidemia cambia se cambiamo noi, cambiando il nostro modo di essere nel mondo. Dobbiamo inventare un rinnovato e diverso “essere insieme”. Il noi deve prevalere sull’io. La stessa libertà individuale sarà tale solo se sarà solidale. Questo mondo ancora meraviglioso noi stiamo facendo del tutto per degradarlo e per perderlo. Il cambiamento climatico che aggredisce l’ambiente provocando deforestazioni, desertificazioni, il ritiro dei ghiacciai, l’estinzione accelerata di specie di animali, gli allevamenti intensivi che creano colture involontarie. Se poi aggiungiamo l’urbanizzazione di grandi territori, le megalopoli con milioni di abitanti, il quadro è completo. Ciò che stiamo vivendo in questo periodo è solo il sintomo di un disagio più profondo. ”Se il contagio è un sintomo, l’infezione è nell’ecologia”(Paolo Giordano).

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